«Il mio prozio, Papa Giovanni XXIII, è davvero un santo»

Verso la canonizzazione La comasca Bruna Roncalli: «Quando papà si ammalò, chiamò il primario di Chirurgia» «Quando mi sposai, nel 1959, andammo in tre a trovare lo zio Papa: mio papà Battista, mio marito e io. Era estate e ci ricevette a Castel Gandolfo. Per le nozze ci aveva donato 50mila lire; durante la visita frugò nelle tasche dicendo: “Qui in Vaticano ci sono tanti soldi, ma non per il Papa. Qualcosa però ho trovato”. E diede ancora dieci dollari a testa a ognuno di noi». È uno dei ricordi di Bruna Roncalli, pronipote di Giovanni XXIII, il pontefice che sarà canonizzato domenica 27 aprile nella basilica di San Pietro a Roma. La signora Bruna è nata e vive a Como da sempre. Suo nonno era uno degli otto fratelli di Angelo, il prete di Sotto il Monte (Bergamo) che nel 1958 sarebbe succeduto a Pio XII. È sposata e ha quattro figli, tre femmine e un maschio. Tra i suoi sei nipoti, l’ultima è nata il 25 novembre, lo stesso giorno in cui venne alla luce Giovanni XXIII. Di lui aveva sentito parlare in famiglia prima che salisse sul soglio di Pietro. Quando ciò avvenne, era una ragazza di appena diciotto anni. Signora Roncalli, tra voi parenti c’era sentore di questo straordinario evento? «Non si pensava che proprio lui potesse essere eletto. Quando avvenne, molti credevano che sarebbe stato un pontefice di passaggio. Invece lasciò un grande segno». Come seppe della fumata bianca in conclave? «Io lavoravo a Chiasso. All’uscita dalla fabbrica, il custode urlò: “Roncalli, Roncalli! Tuo zio (il prozio, ndr) è diventato Papa!”. Passata la paura, perché temetti una disgrazia sentendo il mio cognome ripetuto ad alta voce, mi precipitai a casa al colmo della gioia». Torniamo a quell’incontro a Castel Gandolfo l’anno seguente. Come avvenne? «Chiesi al vescovo di Como come avrei dovuto comportarmi? Eravamo assieme a tanti altri e pensavo che avremmo dovuto aspettare a lungo. Invece, dopo cinque minuti arrivò il battitore. Con il bastone picchiò a terra tre colpi e scandì: “I signori Roncalli da Sua Santità”. Alla vista del Papa mi inginocchiai. Lui sorrise bonariamente e disse: “Guarda che il pavimento è freddo, alzati” A noi sposi chiese dove saremmo andati e io risposi: “A Napoli, dalla mamma di mio marito”. Lui approvò: “Tenete sempre in contatto le famiglie”. Ad ogni figlio che nasceva, ci inviava un telegramma. Scriveva anche al parroco di Monte Olimpino, don Mario Lenzi, per sapere se avevamo bisogno di qualcosa». Che tipo di persona era in base alle sue impressioni? «Una persona molto semplice, simpatica. Non sembrava di parlare con il Papa». Non lo rivide più? «Da vivo no. Ho memoria dei racconti di mio papà, che morì quaranta giorni prima di lui e a causa dello stesso male. Quando gli fu diagnosticato, il primario di Chirurgia mi disse: “Ho ricevuto anche una telefonata di Sua Santità, che mi ha ordinato di fare l’impossibile per suo papà”. Purtroppo si trattava di un tumore al pancreas?». Cosa le raccontava suo papà di Giovanni XXIII? «Il ricordo più bello risale a prima che diventasse Papa. Mio papà era prigioniero di guerra in Albania e monsignor Roncalli, allora delegato apostolico in Turchia e in Grecia, riuscì a farlo liberare. Un giorno, invece, in Vaticano, disse a mio papà: “Avrei proprio un desiderio”. Lui replicò: “Sua Santità, se posso, provvedo volentieri”. E il Papa: “Avrei voglia di mangiare una bella polenta e osei, come la fanno a Bergamo?”». Lei assomiglia un po’ a Papa Giovanni… «…Noo! Mio fratello Flavio, invece, sì. Come una goccia d’acqua». Giovanni XXIII tenne sempre contatti con la famiglia d’origine? «Sì. Regalò una medaglia d’oro a ogni capostipite. Poi, incontrando i suoi fratelli, disse, secondo l’uso di allora: “Devo darvi un titolo nobiliare”. Loro replicarono: “Ma noi abbiamo sempre lavorato la terra, cosa ce ne facciamo? Non possiamo certo essere chiamati Principi”. E non se ne fece niente». Che effetto faceva per lei, giovane ragazza, essere una pronipote del Pontefice? «Ne ero orgogliosa, ma non ne ho mai approfittato. Anzi, mi vergognavo quando qualcuno, a conoscenza di questa parentela, la sottolineava. Quando andavo in Comune a Como per qualche certificato, c’era chi arrivava a inginocchiarsi e mi chiedeva una benedizione!». Lei scriveva al Papa? «Sì, certo, in occasione del suo compleanno e delle festività principali». Come seppe della morte? «Lo appresi dalla televisione. Mi chiamò la Curia di Como. Per il funerale era tutto organizzato: mia mamma, una zia e io andammo alla stazione San Giovanni. Il treno era già prenotato. Alla stazione Termini di Roma ci aspettavano due guardie in borghese; un’auto del Vaticano ci portò a San Pietro. Tutti i Roncalli furono alloggiati dalle Orsoline. Il giorno delle esequie ci venne incontro il suo segretario, ora cardinale, Loris Capovilla, che riconobbe la propria calligrafia in una lettera che io tenevo tra le mani. Per noi c’erano posti riservati nella basilica di San Pietro». Pensa che Giovanni XXIII sia stato un santo? «Lo è. Non arricchì mai fratelli e parenti. Restarono contadini. A Sotto il Monte incontrai il fratello più giovane del Papa, Zaverio. Stava zappando la terra, come faceva sempre. Ogni tanto guardo l’immagine di Giovanni XXIII e la bacio, ma non l’ho mai pregato per me o per i miei cari; lo faccio per gli altri, in caso di gravi problemi. Ho il disco del suo discorso della Luna, quello in cui dice. “Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete forse qualche lacrima da asciugare?”. La prima volta che lo sentii, anche i miei occhi si riempirono di lacrime». Marco Guggiari