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De Bortoli: «A lezione di democrazia dalla Svizzera»

Politica e società Il direttore del “Corriere della Sera” ieri a Lugano: «Il modello federale elvetico utile all’Europa» (da.c.) Italia e Svizzera non rinunciano al dialogo. Annodano fili, in continuazione. Ieri pomeriggio, a Lugano, nella grande sala intitolata a Carlo Cattaneo – un teatro adiacente alla sede consolare italiana nella città ticinese – è andato in scena l’ultimo confronto a distanza tra i due Paesi. Uno scambio di opinioni favorito dal convegno sul “Disagio italiano” organizzato dallo stesso consolato in collaborazione con lo studio legale comasco Vestuti-Cairoli. Tra i relatori del convegno l’ex rettore della Cattolica ed ex ministro della Cultura, Lorenzo Ornaghi, e il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Due voci non dissonanti tra loro che hanno messo in luce l’assoluta necessità del “Sistema Italia” di «invertire la rotta». Cambiare in profondità per non morire, insomma. Questa la ricetta che potrebbe limitare il disagio di cui è preda il nostro Paese, e con esso l’Europa. Un disagio che si è riflesso, negli ultimi tempi, pure nei rapporti con la Confederazione. Diventati difficili. E, dopo il referendum del 9 febbraio scorso, addirittura difficilissimi. «Il referendum ha espresso uno stato d’animo e alcune paure – ha spiegato de Bortoli – Queste paure possono essere ingiustificate, ma se ci sono vanno lette come un dato politico. Bisogna tenerne conto. Io posso non essere felice che il 25% degli italiani voti Grillo e mandi in Parlamento un’allegra brigata di persone che non sanno cosa fare, però evidentemente questo è un malessere, una protesta. L’indicazione di una tendenza». L’esempio serve al direttore di via Solferino per chiarire come procedere. «Se c’è stato un errore nel dibattito continentale, è stato di pensare che la costruzione europea fosse una sorta di inevitabile cammino della storia. Vale a dire, si dovesse diventare più grandi, più forti e più uniti. Non è così, perché c’è chi non ama l’Europa, c’è chi non vuole la moneta comune. E l’errore culturale, di una certa arroganza, è stato di spingere queste persone al di là del dibattito civile. Come se fossero degli appestati. Così, l’idea di anti-Europa è oggi appannaggio della Le Pen o di movimenti xenofobi e razzisti». La Svizzera, ha detto ancora de Bortoli, «può insegnarci molto». È un modello da seguire. «Che cos’è l’Europa? È un insieme di minoranze che si rispettano, le une con le altre. Come la Svizzera, dove si rispettano i diversi costumi, le diverse religioni, le diverse lingue. L’Europa si salva se è capace di crescere nella diversità e nel rispetto delle minoranze. Non facendosi travolgere dal populismo imperante per cui si pensa che tutto sia colpa dell’euro e di chissà quale architettura finanziaria opprimente. Con le soluzioni semplicistiche in 140 caratteri non andiamo da nessuna parte», aggiunge. Il direttore del Corriere della Sera ha insistito quindi sulla «necessità del dialogo» tra «due Paesi a volte distanti in maniera ingiustificata, dato che dobbiamo affrontare problemi comuni. Ad esempio, in che modo si costruisce una società multietnica e non necessariamente multiculturale. Una società capace di essere attenta alle tradizioni, alle identità senza negare gli altri. Oggi abbiamo il problema di una Lombardia che non ha più il passo di crescita economica del passato, cosa che si riflette anche sull’economia del Canton Ticino. C’è anche la necessità di uscire dai temi contingenti: non si può ridurre tutto al tema dei frontalieri, della black list o della voluntary disclosure. Dobbiamo piuttosto riprendere in mano un tessuto di relazioni culturali. Guardando in positivo verso la Svizzera. Le differenti anime di questo Paese ci insegnano anche a salvaguardare i valori di una democrazia diretta intelligente, che non è quella del Web, ma la democrazia diretta consapevole, caposaldo per la possibile costruzione federale dell’Europa». La lezione di Ornaghi Al convegno di Lugano, come detto, ha preso parte anche l’ex rettore della Cattolica, Lorenzo Ornaghi, il quale ha insistito sul bisogno di cambiare, di «rinnovare» la classe dirigente del Paese. «Il tema cruciale oggi è come formare, a partire dalla società prima ancora che dalla politica, la classe dirigente di domani. Le ragioni specifiche del disagio italiano appartengono alla nostra storia ma ve ne sono altre generali, che si trovano nelle tarde democrazie di questo inizio millennio». Spiega Lorenzo Ornaghi: «Preoccupa il fatto che questo disagio crei un’insofferenza sempre maggiore verso la politica. Gli orientamenti dei grandi processi vengono sempre dalla politica, l’operazione di rinnovamento deve quindi partire da qui». La ricetta dell’ex ministro della Cultura è chiara. «Le parti vitali della società italiana – l’associazionismo, il volontariato, il mondo imprenditoriale e così via – devono procedere a un’assunzione di responsabilità superiore. Non possiamo affidare alla politica la soluzione di tutti i problemi. C’è poi l’urgenza della formazione di un ceto politico nuovo, cosa che comporta la modifica dei meccanismi con cui si accede a una classe dirigente. I cittadini devono coltivare la ragionevolezza e spezzare il clima di ostilità vero la politica nel suo insieme».

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