La luce della volontà Parla Daniele Rigoldi, presidente dell’Unione che ha trecento soci nel Comasco Perché si deve dire non vedente, anziché cieco? Formulo la domanda in modo diretto, a metà del colloquio con Daniele Rigoldi, presidente provinciale dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti. La risposta è altrettanto schietta: «Eh, lo chiedo io a lei. Personalmente concordo sull’uso del termine “cieco”, il più breve e diretto per identificare chi è nelle nostre condizioni. Non è un termine dispregiativo, ma forse spaventa ancora tanti?». È una mattina d’inizio marzo che precorre la primavera. Rigoldi scosta la tenda dell’ufficio di via Raschi a Como, dov’è la sede dell’associazione. Socchiude la finestra. L’aria è frizzante. «Io colgo il bagliore della luce che oggi dev’essere intensa», dice. Quarantanove anni, uomo alto e cordiale, sposato e padre di una figlia, lavora in Comune a Erba ed è in carica dal 2010. I soci sono circa 300 – di questi, 110 sono ipovedenti – complessivamente poco meno di un terzo di coloro ai quali l’Inps riconosce nel Comasco l’indennità per gravi problemi alla vista, che non si riducono certo a forti miopie. I locali dell’Unione sono ampi e un rapido tour identifica potenzialità insospettate: una grande sala multiuso utilizzata per conferenze e altre attività di ascolto, nella quale spicca il pianoforte appartenuto al socio musicista Luigi Madona e donato in sua memoria; l’aula informatica, dove si tengono corsi con l’uso di display in Braille, il linguaggio per i ciechi, che oggi permette anche di interpretare i testi sul computer; una cucina per corsi di autonomia domestica. Ma i cicli di lezioni proposti sono molti: orientamento, mobilità, attività motoria, ballo, difesa personale, stiro, capacità di firmare, solo per citarne alcuni. Daniele Rigoldi lavora fianco a fianco con Simona Albizzati, instancabile segretaria in servizio da ventisette anni. Tiene a ricordare l’impegno del suo predecessore, Mario Mazzoleni, presidente per tre lustri e attuale responsabile del gruppo sportivo. Sì, perché la lista delle attività svolte dalla sezione locale dell’Unione è lunga. Impossibile citarle tutte, ma non mancano servizi di patronato, di tutela giuridica ed economica degli associati e dei loro congiunti, di accompagnamento, grazie a una convenzione con l’Auser. Vengono, inoltre, forniti libri e strumenti per ciechi e ipovedenti, tessere per la libera circolazione sui mezzi pubblici della Lombardia. Sono inviati un notiziario settimanale e circolari bimestrali. Presidente, qual è la differenza tra non vedente e ipovedente? «È un tema che mi sta molto a cuore, perché spesso l’ipovedente non è compreso da chi lo osserva fare alcune cose. Ciò non toglie che si tratta di una persona che in situazioni di penombra, all’alba o al crepuscolo, ha gravi problemi visivi e fuori dal proprio ambiente incontra pesanti difficoltà. Non è un caso che l’ipovisione sia il secondo termine della nostra sigla. È la condizione di chi è, per così dire, a metà del guado. Non usa il bastone, né il cane-guida, ma i suoi problemi sono veri e seri. Molte volte, in un determinato arco di tempo, diventa completamente cieco. Ecco perché dico che spesso le denunce di falsi invalidi si basano su una non conoscenza della realtà. L’ipovisione non è visibile?». Qual è la sua storia personale? «A causa di una retinite pigmentosa, tra i venti e i trentacinque anni, io avevo già perso metà della mia vista». Qual è la difficoltà maggiore di una vita al buio? «A volte sono le persone. Penso a chi, dall’altra parte di uno sportello, si rivolge al mio accompagnatore invece che a me direttamente? Questa mal fiducia, l’incapacità di sapersi approcciare potrebbero essere superati anche solo con un po’ di attenzione in più». Cosa manca di più a chi non vede? «A me manca di poter vedere la natura e i volti e le espressioni delle persone». Como è una città che tiene conto delle vostre difficoltà? «Sì, e lo dico perché abbiamo già avuto aiuti da Comune, Provincia e Asf, l’azienda dei trasporti locale. Ma è ancora poco. Noi chiediamo l’accessibilità sui marciapiedi: è un problema se sono ingombrati da cassonetti. Proprio martedì (oggi, ndr) incontreremo assieme ad altre associazioni di disabili il sindaco e tre assessori per il problema delle barriere architettoniche. Chiediamo semafori acustici per l’attraversamento delle strade. La gente, dal canto suo, ci aiuta: i turisti, ancor più dei comaschi, quasi prevengono le nostre esigenze». Cosa aiuta ad accettare una condizione difficile con l’atteggiamento più positivo? «La buona volontà. Imparare a fare le cose il più possibile in autonomia. Io credo nella forza di alcuni slogan, come “Anche ciechi si può”. La tecnologia, per parte sua, ci dà una grande mano. Lo stesso devo dire per i nostri volontari: un’ottantina, se si considerano anche i soci sostenitori. Sono accompagnatori, lettori di libri, cioè donatori di voce. Abbiamo uno statuto che sta cambiando il termine integrazione con inclusione e questa non è solo una questione di parole». Cosa potrebbe fare di più e meglio il mondo della luce per i non vedenti? «Se parliamo delle persone comuni, dico atteggiamenti più spontanei e genuini nei nostri confronti. Magari anche un po’ più di sensibilità e disponibilità. Noi organizziamo corsi al buio per gli alunni delle scuole medie proprio in vista di questo obiettivo con le generazioni future. Dai politici ci aspettiamo qualche aiuto in più per eliminare le barriere architettoniche». Cosa l’aiuta a figurarsi il mondo circostante che non può vedere: l’immaginazione, suoni e rumori, cos’altro? «Fino a vent’anni io ho visto bene e ho ancora ricordi nitidi. Di certo ci aiutano l’immaginazione e la descrizione. Ecco perché partecipiamo spesso alle mostre, per esempio quelle organizzate a Villa Olmo. Se sono ben descritte e ben guidate, sappiamo gustare la visita pittorica. Poi ci aiuta il tatto, che ci permette di identificare meglio qualunque cosa: formelle, pilastri, reperti museali». Conferma che i non vedenti sviluppano altri sensi più di coloro che vedono bene? «Questo non è scientificamente provato. Posso dire che noi, in genere, siamo più attenti di chi vede bene. Normalmente la vista è l’input per l’85% della vita quotidiana. Nel nostro caso ci aiutano la voce, una stretta di mano, un rumore abbinato a un orario… Abbiamo udito e tatto superallenati. Cerchiamo di vivere la vita quotidiana con quattro sensi». Marco Guggiari
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