«Barnard ci diceva: “Doctor, niente è impossibile”»

Luciano Bresciani racconta i suoi anni con il cardiochirurgo di Città del Capo «Chiamavamo Barnard confidenzialmente Chris. Era lui a volere questo rapporto informale. Se però, davanti a una difficoltà, obiettavamo: “Ma come faccio?”, ci richiamava ed esclamava: “Doctor! Niente è impossibile, anche se a volte è difficile?”. Era un uomo che vedeva lontano e aveva una strategia. Oggi ci si imbatte solo in tattiche del giorno per giorno». È uno dei ricordi che Luciano Bresciani, cardiochirurgo ed ex assessore alla Salute della Provincia di Como, nonché responsabile della Sanità lombarda dal 2007 al 2012, offre del periodo trascorso accanto al grande Christiaan Barnard all’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, in Sudafrica. L’occasione del nostro colloquio è l’anniversario del primo trapianto di cuore al mondo, eseguito proprio da Barnard e dalla sua équipe la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1967, aprendo una nuova era nella storia della medicina. Il paziente sottoposto a quell’intervento fu il 55enne Louis Washkansky, che diciotto giorni dopo morì a causa di una polmonite. Ma, il 2 gennaio 1968, lo stesso Barnard eseguì il secondo trapianto sul dentista Philip Bleiberg, che visse con il cuore nuovo per 19 mesi. Luciano Bresciani, classe 1940, arrivò in quel mitico ospedale – che oggi è un museo – qualche anno più tardi, nel 1972, e vi rimase per un triennio. In Sudafrica fece 1.100 interventi cardiochirurgici (valvole e bypass), 500 dei quali su bambini, all’ospedale pediatrico. «I trapianti – spiega – li facevamo al sabato e alla domenica, i giorni in cui si registrava il maggior numero di incidenti stradali e, quindi, con più donatori?». Come giunse alla corte di colui che era il medico più famoso e celebrato del mondo? «Grazie all’invenzione di tre ingegneri miei amici, Salvago, Sircana ed Erculiani, ai quali sono molto grato. Assieme a me progettarono un ventricolo artificiale. Io lo presentai al secondo congresso di chirurgia internazionale che si tenne a Venezia nel 1972, presente Barnard. Quel cuore attirò l’attenzione di Chris, che mi disse: “Prendi tutto e vieni giù da me”. Stava nascendo mia figlia e sono molto grato anche a mia moglie che a sua volta mi disse: “Non si perdono i treni?”. Così iniziò la mia avventura». Bresciani lavorerà in seguito come cardiochirurgo anche negli Stati Uniti, in Canada e in Olanda, operando quindi in tre continenti. Quella prima esperienza segnò in modo indelebile la sua vita e la sua attività di medico. Che aria si respirava nell’ospedale divenuto il più famoso del mondo? «Aria di entusiasmo, di continua ricerca. Eravamo uno staff molto solido e intensamente coeso. Barnard sosteneva i suoi uomini, scelti da lui in tutto il mondo, come l’allenatore di una grande squadra. Eravamo duramente impegnati per gli standard che dovevamo garantire. Ognuno doveva battere se stesso tutti i giorni. Vivevamo un clima di conquista; in quel periodo si stava generando la cardiochirurgia pediatrica d’eccellenza». Cosa significò quel primo intervento di trapianto di cuore nella storia della sanità? «Io credo che fu la grande rivoluzione della medicina. Un po’ come i voli spaziali hanno generato la cultura informatica che abbiamo oggi, così il trapianto di cuore diede una nuova spinta alla chirurgia non solo cardiaca. E portò alle medicine successive, necessarie per evitare il rigetto e le infezioni? Noi ci trovavamo nella situazione di dover attenuare le reazioni verso un tessuto anomalo, trapiantato. Crisi di rigetto e infezioni erano la sponda destra e quella sinistra di un sentiero stretto come una lama di rasoio. Poi, quel sentiero divenne un’autostrada grazie a un farmaco: la ciclosporina. Prima di allora, però, lottavamo nella ricerca continua di un equilibrio». Qual era l’atteggiamento di Barnard in proposito? «Un giorno arrivò e chiese: “Ragazzi, perché i trapianti renali danno risultati migliori di quelli cardiaci?”. Noi, stupiti, replicammo: “Cosa ne sappiamo? Non siamo maghi?”. Allora fu lui stesso a rispondere: “Perché hanno la dialisi; noi dobbiamo trovare l’equilibrio per evitare il rischio del rigetto, più ancora che dell’infezione. Dobbiamo fare la dialisi cardiaca”, disse. Noi ci mettemmo a ridere, ma Barnard disse che parlava molto seriamente e che dall’indomani avremmo iniziato con due cuori di babbuino. Facemmo oltre 130 interventi così? Lui sfidò se stesso inventando una nuova tipologia di trapianto. E noi ci sentivamo parte di questa sfida: il nostro scopo era il successo per il paziente e non fare carriera». Come fu possibile iniziare con i trapianti di cuore lì e non altrove? «Una borsa di studio all’Università del Minnesota aprì il processo per le tecnologie del trapianto di cuore. Le borse di studio furono assegnate a Christiaan Barnard e allo statunitense Norman Shumway. Intanto, in Sudafrica, cardiologi e anestesisti preparavano le tecnologie di assistenza pre e post trapianto. Quando Barnard rientrò dagli Usa, trovò una squadra multiprofessionale. Suo fratello Marius fu inviato a Houston per imparare e fargli da spalla. Il problema era: quali erano i candidati donatori? Quali patologie non ne facevano soggetti idonei? Barnard fu vincente nell’individuare i soggetti idonei: coloro che si trovavano in coma cerebrale irreversibile. Presentò un progetto di legge che fu approvato. Negli Stati Uniti, invece, il cuore non si poteva espiantare finché batteva. Lo stato giuridico e la cultura di quel Paese ritenevano che il cuore battente corrispondesse alla possibilità di sopravvivere. Ecco perché Shumway fu battuto». Che tipo era Barnard da vicino? «Era un uomo che suscitava ammirazione per ciò che insegnava e invidia per la sua imbattibilità sotto il profilo professionale. Creò la nuova cardiochirurgia mondiale. Era sempre davanti a tutti, davvero un ottimo trainer. Non era arrogante, ma molto coraggioso. Il suo rapporto con me era eccellente». Ha, tra i tanti, qualche ricordo particolare? «Prima di tutto, il fatto che Barnard avesse il coraggio di dichiararsi non razzista. I suoi reparti – C2 e C4 – erano rispettivamente riservati al blocco dei neri e all’apartheid bianco, ma lui volle la scritta C2-C4, a riprova della sua idea che non doveva esserci separazione tra bianco, nero e coloured…». Christiaan Barnard morì il 2 settembre 2001 durante una vacanza all’isola di Cipro, tradito proprio dal cuore: se lo portò via un infarto. Aveva 78 anni. Non operava più dal 1987 a causa di un’artrite deformante alle mani. Marco Guggiari