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Lino Albonico, la fede nel lavoro. «Si fece dal nulla, vedeva il futuro»

Il figlio medico e scrittore ricorda l’imprenditore comasco «Era nato poverissimo in piazza San Rocco. Cominciò a tingere le prime pezze proprio lì, in uno sgabuzzino». Inizia così la chiacchierata che rievoca la figura di Lino Albonico, fatta con il figlio Giorgio, classe 1953, medico e scrittore che sta per dare alle stampe un romanzo storico dedicato alla vicenda della contessa Pia Bellentani, dal titolo “Le acque oscure del Lario”. Quest’anno ricorre il centenario della nascita del padre, singolare imprenditore comasco la cui storia è quella di un tipico self made man, un uomo che si è fatto da sé, conquistando ricchezza e successo. Uno dei tanti nella Como di un tempo. Dalla zona di San Rocco, passò in via Anzani, nell’area del Mulino; infine, negli anni Sessanta, costruì lo stabilimento modello di Montano Lucino dove insediò la Tintoria Como, una tintostamperia per conto terzi e che produceva tessuti speciali impermeabilizzati, di cui lo stesso Albonico deteneva i brevetti. Dottor Albonico, suo padre come iniziò a costruire quella grande impresa, quali furono i primi passi? «Cavalcò il periodo favorevole del dopoguerra, quello in cui chi era intraprendente poteva fare senza restare ingabbiato in troppe pastoie burocratiche. Del lavoro aveva una concezione quasi sacrale e lo stesso può dirsi per tanti altri comaschi. Tutta gente che non si vantava di avere una bella casa, ma diceva: “Io lavoro molto”? Questa era la loro forza. Mio padre non faceva mai il passo più lungo della gamba. Anche quando ampliò la sua attività con un complesso industriale moderno e all’avanguardia». A cosa attribuiva il suo successo di imprenditore? Ne parlava in famiglia, magari per indicare comportamenti? «Nutriva un amore assoluto per la sua azienda, che considerava come un quarto figlio (Lino Albonico era sposato e oltre a Giorgio aveva altri due figli che proseguirono la sua attività, ndr). Da questo discendeva il concetto, per lui naturale, del reinvestimento costante degli utili nell’impresa che, così facendo, fioriva. Non si può dire, parlando in generale, che le generazioni succedute ai pionieri abbiano fatto altrettanto». Lino Albonico è ricordato, oltre che come imprenditore, come un comasco che ha creduto nel Setificio e al quale questa istituzione deve molto? «Desiderava fare qualcosa anche nell’ambito della formazione. Fece l’assistente di Chimica al Setificio e professori mitici, come Amoletti e Marni, diventarono suoi amici. Negli anni Settanta mio padre fu anche nominato presidente del Setificio». Che idea aveva Lino Albonico di Como e dei comaschi? Pregi e difetti. «Beh, i difetti dei comaschi li conosciamo tutti: una certa chiusura, un po’ di provincialismo? Ma mio padre ne apprezzava e faceva propria la laboriosità e la capacità di saper vivere per un progetto senza mettersi in mostra: il non far vanto della ricchezza». Com’era percepito dall’establishment? «A un certo punto egli stesso entrò a farne parte. Era amico, per esempio, del sindaco di Como, avvocato Lino Gelpi. Certo, era molto intelligente, ma non di studi raffinati. Tuttavia questo non gli toglieva niente. Può darsi che qualcuno avesse qualcosa da ridire per i suoi limiti culturali, ma penso che non fosse l’unico ad averli?». Era un uomo dai molteplici interessi: possiamo metterli in fila? «Oltre al lavoro, la sua passione principale era la caccia a cui dava libero sfogo nella sua tenuta di Fortunago. Era nato in un ambiente contadino nel quale cacciare era procurarsi da mangiare. Si era avvicinato all’editoria con il “Corriere della Provincia” (testata comasca in edicola il lunedì, chiusa nel 1989, ndr), grazie alla sua amicizia con il colonnello De Angelis che faceva parte della proprietà. Devo dire che mio padre amava essere informato, aveva giornali ovunque». Quando se n’è andato, lei scrisse che era come se fosse caduta la quercia davanti a casa? «Sì, ricordo? Scrissi così proprio perché era un uomo che a me dava l’idea di forza e di solidità. Per questo, quando morì in un incidente d’auto sul “tiro” di Montano Lucino, il 7 febbraio 1986, fu come se improvvisamente si fosse abbattuto un albero d’alto fusto. Non potevo rendermi conto che ciò potesse accadere. Quella mattina si recava in azienda, come sempre. Quando andai all’obitorio, mi colpì profondamente un fatto: accanto a lui, morto d’incidente, la “malattia” dei giovani, c’era un ragazzo deceduto a causa di una polmonite, la malattia dei vecchi?». Quali erano le qualità più spiccate di suo padre? «L’estrema capacità di sintesi e di prevedere il futuro prima degli altri. Ricordo casi in cui vide avanti, anche di vent’anni, con una lucidità davvero sorprendente. Era molto intuitivo anche sull’evoluzione dei mercati. Poi era stato operaio e conosceva bene la mentalità di chi lavorava con lui. I suoi dipendenti ne avevano stima perché parlava il loro stesso linguaggio e questo significa molto, anche a livello di rapporti umani». Cosa resta di lui oggi nella nostra città? «La traccia di una persona appartenente a un gruppo che ha fatto crescere e progredire Como, tutta gente dalla forte personalità. E questo, a ben vedere, fu anche un limite perché non ha aiutato a creare una successione altrettanto autorevole». Marco Guggiari

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