Un generale ricorda la strage di Cima Vallona

Un generale ricorda la strage di Cima Vallona

Cesare Di Dato: «Il capitano Gentile mi salutò, poi rinunciò alla licenza e andò a morire» Prima delle stragi, da piazza Fontana ai treni, passando per la stazione di Bologna, e prima del terrorismo delle Brigate Rosse, l’Italia ha conosciuto le azioni eversive dei separatisti in Alto Adige. Il fenomeno, che causò vittime e danni alle cose, si sviluppò in due periodi. Il primo, iniziato nel 1956 con un attentato a un traliccio di Settequerce, alle porte di Bolzano, si concluse verso la fine degli anni Sessanta. La seconda ondata di attentati, più breve, ebbe luogo invece tra il 1986 e il 1988. In tutto, quella serie di azioni terroristiche causò 21 caduti e 57 feriti tra forze dell’ordine e privati cittadini. I processi che seguirono alle indagini portarono a 157 condanne penali. Numeri importanti, che culminarono nell’attentato di Cima Vallona del 25 giugno 1967: in quella sola occasione morirono quattro persone e un’altra fu gravemente ferita. Tutto iniziò con l’abbattimento di un traliccio dell’alta tensione: alle 3.40 una sentinella del distaccamento di Forcella Dignas, nel territorio del comune di San Nicolò di Comelico (Belluno), avvertì una forte esplosione in direzione del passo di Cima Vallona. Informò dell’accaduto il comando del presidio di Santo Stefano di Cadore. Per accertare la causa dello scoppio fu inviata una pattuglia di alpini, artificieri e finanzieri che giunti a circa 600 metri dal traliccio, non potendo proseguire oltre con gli automezzi, procedette a piedi. Improvvisamente, a circa 70 metri dal manufatto, si verificò l’esplosione di un ordigno collocato sotto un mucchio di ghiaia. L’esplosione investì l’alpino radiofonista Armando Piva. Trasportato all’ospedale di San Candido (Bolzano), morì dopo alcune ore di agonia. A bordo di un aereo fu allora inviata una squadra della Compagnia Speciale Antiterrorismo composta dal capitano dei carabinieri Francesco Gentile (carabiniere paracadutista del Tuscania), dal sottotenente Mario Di Lecce e dai sergenti Olivo Dordi e Marcello Fagnani (incursori del Col Moschin). Assolto il loro compito, sulla via del ritorno i quattro si avviarono lungo lo stesso itinerario percorso all’andata e in direzione dell’elicottero rimasto in attesa, quando uno di loro attivò una trappola esplosiva piazzata a Sega Digon (una borgata di Comelico Superiore), distante dal luogo dell’attentato. A seguito dell’esplosione Di Lecce, Gentile e Dordi morirono sul colpo, mentre Fagnani rimase gravemente ferito. Sul luogo dell’esplosione furono trovate due tavolette di legno con incisa la rivendicazione a firma del Bas (Comitato di liberazione del Sudtirolo). La scritta diceva: “Voi non dovete mai avere più la barriera di confine al Brennero. Prima dovete ancora scavarvi la fossa nella nostra terra”. Di tutto questo parliamo con il generale Cesare Di Dato, all’epoca capo della Sezione Addestramento del Comando di Corpo d’Armata alpino di Bolzano e in seguito comandante del Battaglione Aosta in Valle d’Aosta. Nativo di Busseto, in provincia di Parma, Di Dato comandò poi dal 1978 il distretto militare di Como e in seguito presiedette il Consiglio di Leva. Per undici anni ha inoltre diretto il mensile “L’Alpino”. È sposato ed è padre di due figli. Generale, nel periodo compreso tra il 1956 e il 1988 l’Alto Adige fu scosso da attentati terroristici. Si può dire che questa sia stata la nostra frontiera interna calda? «Sì, in quella dolorosa vicenda furono implicati terroristi tedeschi e austriaci, oltre a Georg Klotz, che essendo nato in Val Passiria era italiano. Le teste calde, in verità erano tuttavia poche decine e la popolazione locale dell’Alto Adige non le appoggiava. In tanti anni di servizio ho infatti trovato sempre mani tese ai nostri soldati; ho lavorato in ambienti assolutamente favorevoli a Vipiteno, a Brunico? Non posso dire di aver avuto nemici. E tengo a dire che i miei soldati altoatesini, di alcuni dei quali ricordo ancora i nomi, erano d’esempio a tutti per la loro disciplina». L’atto più grave, per il numero di vittime che causò, fu l’attentato di Cima Vallona. Lei era di stanza nella zona. Cosa ricorda di quella strage? «Purtroppo fu un’operazione da manuale. Ne ho un doloroso ricordo per più motivi. Tra le vittime di quel duplice attentato, oltre al povero alpino Armando Piva, vi furono uomini della Compagnia Antiterrorismo, che io contribuii a costituire dal punto di vista logistico. E, tra loro, il capitano dei carabinieri Francesco Gentile che poche ore prima dell’evento era venuto a trovarmi in ufficio a Bolzano per salutarmi alla vigilia della sua licenza. Poi vide partire gli altri tre e disse: “Vado anch’io”, rinunciando alla licenza? Sono convinto che le morti siano state causate da una mina a rilascio di tensione, o da una carica collocata tra un cumulo di sassi e fatta esplodere a distanza». Quali misure di sicurezza scattarono dopo la strage? «Vi furono un’intensificazione del pattugliamento e un ispessimento delle guardie in tutto il territorio, dal confine svizzero della Val Resia fino a Comelico. Presidiammo tutti i punti sensibili: caselli ferroviari, dighe, laghi, centrali elettriche? Era il minimo che si potesse fare, anche se non c’è esercito che possa far fronte a una guerriglia ben organizzata e la storia, anche recente, in altri scenari lo conferma». Qual era il clima che si respirava? «Come ho già detto, la popolazione locale, in generale, non ci era nemica. Nutriva verso di noi un rancore esiguo, assolutamente epidermico. Non ricevetti mai un no alla richiesta di poter alloggiare muli con soldati nei fienili di proprietà di contadini altoatesini e questo, magari, a quindici chilometri dal confine austriaco. Quanto alla psicologia di chi si sentiva italiano a tutti gli effetti, prevaleva la paura e mi riferisco anche ai familiari di noi militari». C’erano soldati di leva ai quali veniva sconsigliato di uscire dalle caserme se non in gruppo. «Assolutamente vero. A ciò aggiungevamo la raccomandazione di non provocare le ragazze locali, di non fare dimostrazioni di prepotenza quali depositari di chissà quale forza da esibire». Che idea si fece personalmente di questa situazione che pesca certamente nella storia recente di Italia e Austria: qualcuno mancò nella ricerca di una soluzione politica? «Le rispondo che vivevamo una marea montante di pretese affinché noi abbassassimo la guardia e com’è noto, a furia di retrocedere, crollò anche l’Impero Romano? Per quel che mi risulta, qualcuno da parte austriaca soffiò sul fuoco, altrimenti non ci sarebbero stati fatti come Cima Vallona. E c’era anche chi tramava non già per tornare sotto l’Austria, ma per il sogno di un nuovo Stato che aggregasse Alto Adige, Tirolo e parte della Baviera». Marco Guggiari