Quando piaceva dare soldi ai partiti

Un tema di stretta attulità Nel 1978 la bocciatura del referendum radicale. Cima Vivarelli: «Ma allora nelle strade si sparava» Il governo Letta ha annunciato un disegno di legge che, nelle intenzioni dichiarate, dovrà eliminare il fiume di denaro pubblico versato ogni anno a beneficio della “casta”. In tempi di spending review e di disamore per la politica, la notizia segna una possibile svolta nel finanziamento dei partiti. Il nuovo meccanismo, simile a quello messo a punto per le Chiese e per le onlus, prevede la ripartizione del 2 per mille alle forze politiche su base volontaria. L’inoptato, vale a dire quanto non viene espressamente destinato dai cittadini ai partiti, resterebbe allo Stato. L’occasione è buona per un excursus sulla materia che da quarant’anni è oggetto di periodiche ondate di indignazione e di altrettante revisioni normative, soltanto fittizie. Basti ricordare che il finanziamento pubblico fu introdotto dalle Legge Piccoli n. 195 del 2 maggio 1974, in seguito allo scandalo petroli. Seguirono referendum abrogativi, con alterni risultati, nel 1978 e nel 1993. Ne parliamo con Francesco Cima Vivarelli, 48 anni, avvocato del Foro comasco, che da giovane militante radicale si impegnò in prima persona in occasione del referendum di vent’anni fa. Avvocato, come nacque quell’attività? «Nacque ascoltando Radio Radicale, che trasmetteva in diretta i dibattiti parlamentari portandoli nelle case dei cittadini senza mediazioni. Mi sentii in sintonia e nella fascia di età tra i 17 e i 25 anni mi impegnai anch’io. Ero uno studente e la quota d’iscrizione al Partito Radicale era costosa, ma equivalente a un caffè al giorno, tale da poter essere pagata anche da chi non disponeva di risorse. Il concetto, sintetizzato nello slogan “Dai una parte di te stesso alle tue idee”, era bello. A Como eravamo una quindicina di militanti impegnati tutti i sabati e tutte le domeniche in piazza Boldoni, organizzando turni al lavoro, saltando ferie ed esami universitari, facendo il giro di tutti i Comuni per le certificazioni. Tutto per pura passione. Gli altri avevano i signori delle tessere?». Lei fu tra i protagonisti a livello comasco della campagna referendaria del 1993 che sfociò nell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Cosa ricorda di quel periodo? «Chiedere l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti era la logica conseguenza dello stile che ho descritto. Raccogliere le firme in piazza, tra la gente, era esaltante. Ai tavoli radicali si firmava e si versava un contributo volontario perché alla fine della giornata il cancelliere, la cui presenza era prevista dalla legge, doveva essere pagato. Quella del 1993, in realtà, per me fu l’ultima esperienza. Per come andarono le cose, provai un forte senso di tradimento (il referendum abrogativo ebbe oltre il 90% di voti a favore, ma il Parlamento, con un esacamotage, si limitò ad aggiornare la legge sui rimborsi definendoli “contributi per le spese elettorali”, ndr). I contributi continuarono e furono sempre più gonfiati a dismisura. Imparai a mie spese che la classe politica italiana è sempre portata al compromesso. Non appena iniziava una raccolta di firme, i partiti si chiedevano come potevano evitare il referendum e proseguire come prima». Quindici anni prima, nel 1978, proprio l’11 giugno, come oggi, i risultati di un’analoga battaglia referendaria furono assai diversi: anche in quel caso il quorum fu raggiunto, ma la maggioranza dei votanti (56,4%) disse no all’abrogazione. Perché? «Penso che questo sia stato il frutto di un periodo storico particolare. Tra i referendum proposti, oltre a quello sull’abolizione del finanziamento pubblico, c’era l’abrogazione della Legge Reale (le norme che inasprivano la legge penale per combattere il terrorismo, ndr). Ma tutto questo avveniva mentre si sparava nelle strade, proprio a causa dell’emergenza terroristica. Il tema era sacrosanto, ma decisamente impopolare nell’anno del rapimento Moro? E, oltre al terrorismo, c’era un’inflazione a due cifre. Non dimentichiamo che quelli erano gli anni in cui la Germania Ovest fece un prestito al nostro Paese in cambio di un pegno d’oro della Banca d’Italia. Ciononostante, i partiti proponenti l’abolizione del finanziamento pubblico – radicali, demoproletari e liberali – ottennero il 43,6% di sì, ben più del loro 4% di voti in Parlamento». Forse i partiti, nel 1978, erano anche più credibili? «In realtà, una parte sommersa e non qualunquista di elettorato iniziava allora a non sentirsi più rappresentata dai partiti. Certo, le forze politiche non erano così autarchiche come oggi. Celebravano congressi. Si votava esprimendo preferenze. Ma erano già una casta, avevano già in sé tutto ciò che di negativo si è poi più apertamente rivelato. Il sistema politico internazionale era bloccato, c’erano il Muro di Berlino e la guerra fredda. In Italia vigeva il consociativismo, tanto quanto c’è oggi con un centrodestra che, in tutte le sue declinazioni, non ha mai attuato le riforme liberali e un centrosinistra che, in tutte le sue espressioni, non ha mai risolto il conflitto d’interessi». Perché è tanto difficile riformare il modo in cui la politica trova le risorse necessarie alla sua funzione in Italia? «È difficile che i partiti si autoriformino. Sarà necessario un atto catartico, forse un’altra Tangentopoli perché le cose cambino, sempre che non si tratti di un mutamento gattopardesco? Vige tuttora un sistema che elargisce denaro a pioggia: pensiamo ai rimborsi ai consiglieri regionali. Non c’è solo il problema del finanziamento pubblico ai partiti. I cittadini devono riprendere l’iniziativa e impegnarsi in prima persona. Molti dei miei ex compagni dell’impegno giovanile nel Partito Radicale sono ancora lì e hanno tutta la mia simpatia e il mio appoggio». Marco Guggiari