«Ucciso Robert, ci restò solo un guscio vuoto»

«Ucciso Robert, ci restò solo un guscio vuoto»

L’epopea dei Kennedy Jerry Fresia vive sul Lago di Como e ricorda il sogno infranto dei giovani americani Viene dal Massachusetts, la patria del clan Kennedy. Ha trovato la sua America sul Lago di Como, dove vive dal 2004 con la moglie, a Lenno, in una splendida casa affacciata sul Golfo di Venere. I suoi nonni sono italiani, di Busto Arsizio, di Asti, dell’Abruzzo, e ora anche Jerry Fresia, 65 anni ben portati, è cittadino italiano. Ingegnere elettronico, ma poi docente di Scienze Politiche in varie università della California, pittore dal tratto delicato, dipinge suggestivi scorci del Lario. «Mia nonna – racconta – era un’artista amatoriale. Quando andavo da lei ero completamente rapito dall’odore e dai colori della tavolozza nella sua cantina. La mia vocazione nacque così». Fresia ha una galleria d’arte a Bellagio e un sito (www.fresia.com). Accetta volentieri di incontrarci per ricordare Robert Kennedy nel 45° anniversario dell’attentato mortale compiuto da Shiran Shiran all’Hotel Ambassador di Los Angeles la sera del 4 giugno 1968. Il suo è il punto di vista di un americano, all’epoca ventenne e convinto sostenitore della “nuova frontiera”. Mister Fresia, cosa ricorda dell’attentato a Bob Kennedy? «Devo premettere che io ero un kennedyano entusiasta. Quando John Kennedy si candidò, pur avendo solo dodici anni, fui un forte sostenitore. Pedalavo in bicicletta portando un suo poster. Ero eccitato dall’idea di un presidente così nuovo. Gli Stati Uniti erano la massima potenza e anche noi ragazzi pensavamo che con lui si potesse cambiare il mondo. Devo a questa passione i miei studi e il dottorato in Scienze Politiche. Era come se John Kennedy fosse uno di famiglia. Un mio cugino lavorava per lui, organizzava i suoi viaggi. Il suo assassinio mi impressionò enormemente. Mi chiedevo chi l’avesse ucciso e sono tuttora convinto che si sia trattato di una cospirazione. Così iniziai a leggere molto anche su Robert Kennedy. E pure nel suo caso sono per la teoria del complotto. Quella sera, nell’estate del ’68, ero a casa perché le lezioni all’università erano finite. Qualcuno disse che avevano sparato a Bob Kennedy. Io pensai che intendevano John e che lo sapevamo già, tanto mi pareva impossibile. Ero confuso?». Cosa ricorda delle ore successive all’attentato? «Incredulità. Il mondo sembrava impazzito. Era il 1968, c’era la guerra in Vietnam, era già stato ucciso il pastore Martin Luther King, gli Stati Uniti vivevano nell’incubo. Con la candidatura alle primarie del Partito Democratico di Robert Kennedy sembrava che le cose potessero risistemarsi». Si è detto spesso che il vero grande politico di famiglia fosse Bob e non il presidente John Kennedy: concorda? «Sì e no. Prima che il presidente John Kennedy fosse assassinato, Bob era molto giovane. Benché brillante e ambizioso, lui era il più piccolo e questo si vedeva. Dopo l’omicidio di John fu diverso. Intuì che uomini potenti, forse nello stesso entourage del presidente, sapevano del complotto e magari vi avevano partecipato. D’improvviso si sentì investito di una missione, si sentì molto sicuro di sé. Capì di non avere bisogno di altri e di poter fare da solo. Questo risultò evidente dalla sua stessa campagna elettorale per ottenere la designazione alla corsa per la Casa Bianca. Bob cominciò a fare affermazioni molto radicali e divenne un’enorme minaccia per l’establishment». Secondo lei, se non fosse stato assassinato, Bob Kennedy avrebbe vinto le primarie del Partito Democratico e sarebbe stato eletto presidente? «Sicuramente sì». Che tipo di presidente sarebbe stato? «Robert Kennedy era un personaggio unico in quel momento. Parlava a più categorie di persone: neri, bianchi, poveri e affamati. Era stato favorevole alla guerra in Vietnam, ma non lo era più. Non c’era in circolazione una figura come la sua. Lui avrebbe potuto fare davvero grandi cose». Quell’anno, il 1968, fu terribile: in aprile, appena due mesi prima, fu ucciso Martin Luther King. In un certo senso, sembrava morire anche la speranza. «In realtà, l’America era divisa. I Kennedy erano considerati responsabili della guerra in Vietnam e una notevole quantità di opinione pubblica era a loro contraria. Molti giovani divennero estremamente politicizzati e radicali. Gli adulti pensavano che fosse vicina la fine del mondo, tanto era orribile quel periodo. C’era il movimento afroamericano delle Pantere Nere e i giovani avevano la sensazione che la rivoluzione fosse vicina? In Europa, dopo il maggio francese del ’68, gli studenti si rivoltavano contro tutti e tutto». Quanto accadeva in America metteva in evidenza la necessità di una riconciliazione tra le razze. È un obiettivo conseguito, per il fatto che oggi alla Casa Bianca c’è Barack Obama? «No, anche in questo caso dobbiamo distinguere. Con la presidenza di Obama, indubbiamente, si realizza in parte il sogno di Martin Luther King. Ma da un altro punto di vista, i giovani di allora pensano che Obama non sia in grado di reggersi da solo, come invece Robert Kennedy. Mi spiego: lui era una vera minaccia per il potere costituito, per le banche, per i produttori di armi. Obama, obiettivamente, no». Su Robert Kennedy e su suo fratello John, però, ci sono anche ombre: la vicenda della Baia dei Porci a Cuba, la guerra in Vietnam, certe amicizie discusse e discutibili. «Effettivamente il padre dei Kennedy, Joe, aveva fatto fortuna con il contrabbando e tanti di quelli sospettati di aver complottato per uccidere sia John che Bob erano stati suoi amici. Sono ormai accertati alcuni collegamenti del clan Kennedy con la mafia, per la verità più con Robert che con il presidente John. Ma Robert, da ministro della Giustizia, perseguì i corrotti anche nel sindacato e John fu ucciso proprio per intimidire anche lui». Che cosa resta dell’epopea kennedyana ai giovani americani di allora? «Un guscio vuoto? Una sensazione di sterile vuoto. Chi aveva il potere economico e politico allora, è tuttora lì, compresi i guerrafondai. Noi sentivamo che Bob Kennedy era interessato ai problemi della povertà e della disuguaglianza e che avrebbe fatto qualcosa per risolverli dopo che gli avevano ammazzato il fratello». (Ha collaborato Lisa Riva) Marco Guggiari