Un guanelliano in guerra con la camorra

Un guanelliano in guerra con la camorra

Esordi lariani Don Aniello Manganiello racconta i suoi 16 anni di parroco a Scampia Quante drammatiche storie di vita nel libro del guanelliano padre Aniello, che ha raccontato i suoi sedici anni a Scampia, il quartiere più problematico e ad alta densità camorristica della periferia di Napoli (“Gesù è più forte della camorra”, don Aniello Manganiello con Andrea Manzi, Rizzoli, 2011): “Il mio Bronx, l’isola criminale dove il 65% della gente è disoccupata e dove viene gestita la piazza della droga più importante d’Europa”, precisa l’autore. Nella sua dolorosa, eppure esaltante esperienza, fa di tutto: accudisce malati di Aids, riscatta un giovane pusher della camorra convertito, assiste ad altrettanti cambiamenti di vita di alcuni boss, favoriti dalla sua capacità di accogliere. Si fa imbrogliare da tossicodipendenti che chiedono denaro, inventando falsità. Constata come a Scampia non si sporgano denunce per alcun reato e nemmeno per incidenti stradali: «Fare riferimento a un camorrista, se ti accade qualcosa, è ancora l’arma più efficace per risolvere i contenziosi», è l’amara constatazione. Don Aniello viene accolto nella sua nuova parrocchia da una raffica di furti quotidiani, ma riesce a stroncare gli allacciamenti abusivi alla conduttura dell’acqua (al suo arrivo la bolletta ammontava a 4 milioni, poi soltanto a 225mila lire). È minacciato. Vede la collusione di funzionari e uomini delle forze dell’ordine. Preferisce agire come fra’ Cristoforo, anziché come don Abbondio e fa suo l’insegnamento del buon cristiano: il coraggio della denuncia. Conosce le “Vele” dove abitano migliaia di abusivi, senzatetto storici reclutati dalla camorra. Vive in diretta crolli che causano morti, dovuti al degrado sociale e urbanistico. Si scontra con la sordità dei vertici di Comune e Diocesi. Ma fa sempre sua la massima di San Luigi Guanella: “A chi ha bisogno non basta solo il Vangelo. Perciò, date pane e Vangelo”. Per cambiare i malavitosi adotta una tecnica precisa: «Vanno fissati negli occhi, a uno a uno, rassicurati e amati, protetti e sfamati. Soltanto allora, quando si prospetta loro una nuova dimensione esistenziale, è possibile rinsavirli». Ma nella preparazione ai Sacramenti esige conversione, altrimenti non li amministra. La sua, spiega, è la strada della carità militante: «La strada della strada». Inevitabile per don Aniello finire sotto i riflettori anche per le sue denunce eclatanti e per le pubbliche ribellioni sui mass media. Proprio il fatto di raccontare alla radio e in tv le condizioni di vita di un quartiere-polveriera segna nel 2010 il suo allontanamento da Scampia. Tentato di lasciare, assieme al “Quartiere don Guanella”, anche l’Opera e restare sacerdote fuori dalla Congregazione, alla fine prevale in lui l’obbedienza. Nell’ottobre 2010 torna al Trionfale di Roma, costruito intorno alla chiesa voluta da don Guanella nel 1912 e dove don Aniello era già stato per undici anni. Ma Scampia, il suo Bronx, continua a essere il pensiero dominante e da gennaio 2011, dopo aver scritto il libro, torna a riflettere nella sua terra prendendosi un anno sabbatico. Don Aniello, qual è la sua attuale situazione dopo il periodo di riflessione? «Dopo l’anno sabbatico, nel febbraio 2012 i superiori mi hanno concesso un triennio per fondare un progetto: un’associazione per la solidarietà e per la legalità che si traduce nell’accompagnamento educativo nelle scuole e nella consegna di beni confiscati da utilizzare per fare qualcosa di utile nella società. Il vescovo di Nola ha accettato di essere il mio riferimento a una sola condizione: che nei lunghi periodi in cui non batto l’Italia per il mio nuovo impegno, io aiuti il parroco del Quartiere Gescal di Camposano (Napoli, ndr), mio paese natale». Visto ciò che ha fatto e dove è stato impegnato, non ha mai temuto che la sua testimonianza diventasse martirio, in altri termini, di essere ucciso dalla camorra? «Sì e subito, all’inizio, ho percepito più di una volta questo pericolo, quando ho dovuto affrontare i camorristi che commettevano i furti d’acqua ai danni della parrocchia. Ma nella mia famiglia siamo stati educati a non commettere ingiustizie e ad una forte ribellione quando le subiamo. Mi ha motivato a dare un messaggio forte anche l’idea che la gente potesse scrollarsi di dosso quella piovra. Io sapevo che dovevo correre rischi e le minacce sono arrivate, ma non piegarmi è stato più forte di me. Certo, mi ha procurato molta sofferenza essere lasciato solo nella mia iniziativa. Soltanto due parrocchiani andarono da chi minacciava di tagliarmi la gola e gli parlarono chiaro: “Se vuoi ammazzare don Aniello, devi passare sui nostri cadaveri”. Ho avuto paura di fare una brutta fine anche dopo l’intervista alle “Iene” con Giulio Golia, mostrando le prepotenze della camorra. Avevo raccolto le lacrime e le sofferenze dei commercianti costretti a pagare il pizzo. Quando mi è stata offerta, ho rifiutato la scorta delle forze dell’ordine». Come guanelliano ha ricordi particolari di Como? «Ho fatto noviziato e liceo a Barza d’Ispra, in provincia di Varese e a Como sono stato un sacco di volte, specialmente nella basilica del Sacro Cuore, insieme con altri novizi, soprattutto in occasione della festa dell’allora Beato Guanella, il 24 ottobre. Ricordo anche un’esperienza particolare fatta a Como. Non ero ancora professo e fu richiesta dal Padre Maestro la disponibilità di quattro chierici per sostituire per 15 giorni i confratelli che dovevano sostenere l’esame di teologia nel seminario della città lariana. Tra i quattro c’ero anch’io. Così, a 17 anni, mi occupai come educatore del doposcuola e dell’animazione del tempo libero di ragazzi ospiti del collegio, i cui genitori erano emigrati in Svizzera. Per me fu un’esperienza significativa». Che impressione le fecero a Como le opere del fondatore dell’ordine? «Capii cosa significa aiutare i poveri e le persone in difficoltà. Mi affezionai all’opera nel 1965, dopo la lettera inviata dai guanelliani al mio insegnante di quinta elementare. Io avevo deciso di fare il frate cappuccino, ma cambiai. Vengo da una famiglia numerosa, povera e in certi periodi perfino in miseria. Ma nonostante questo, non provammo mai odio e rancore verso chi stava meglio, bensì proprio il desiderio di aiutare gli ultimi, i diseredati». La comunità comasca vive in una dimensione ben diversa da quella di Scampia. Lei crede che il Nord potrebbe fare qualcosa per migliorare situazioni tanto difficili? «Sì. Il libro che ho scritto mi ha portato in giro per l’Italia. Ho fatto oltre 400 presentazioni e sono contento di aver fatto conoscere l’Opera don Guanella. Ho fondato una squadra di calcio, l’Asd Oratorio Don Guanella, perché attraverso il gioco si educhi a una vita diversa e i giovani siano elevati. Questo mi ha dato modo di conoscere tante realtà del Nord a cui ho proposto e attuato vari gemellaggi che aiutano anche a superare i pregiudizi che dividono Nord e Sud. Il confronto, l’incontro, la stima permettono di scoprire qualità reciproche. Ho fondato anche “Ultimi”, associazione per la solidarietà e la legalità che prende spunto da don Guanella: fermarsi non si può finché ci sono poveri da soccorrere». Lei ha dovuto interrompere il suo lavoro a Scampia. Crede che possa comunque dare frutti, oppure tutto è andato perduto? «Ho subìto il trasferimento che ho accettato solo con la mente, ma non con il cuore. Ma a Scampia seguo ancora dieci categorie di ragazzi che giocano a calcio nell’Asd Oratorio Don Guanella. Sono ancora presidente di questa associazione, ho dato tre volte le dimissioni per offrire spazio ad altri, ma per tre volte mi hanno eletto. Nessuno è indispensabile, ma se hanno ancora bisogno anche di me, io ci sono». Marco Guggiari