La storia dalla Val Cavargna. «L’incendio mi ha segnato per sempre»

La storia dalla Val Cavargna. «L’incendio mi ha segnato per sempre»

Val Cavargna in fiamme Lucia Curti rievoca il rogo che distrusse Oggia nel 1943 Quella che segue è la storia di una tragedia. Merita di essere ricordata per conservare la memoria delle sue povere vittime e non solo. La vicenda che risale a settant’anni fa, infatti, nella sua cruda durezza, riesce anche a tramandare valori importanti. Tra questi, la straordinaria capacità di sopportazione della gente umile, la sua ferma volontà di non lasciarsi fiaccare dalla malasorte, l’impegno profuso – a prezzo di immani fatiche – per ricostruire il proprio paese distrutto da un devastante incendio. Ci riferiamo alla piccola frazione di Oggia, nel Comune di San Bartolomeo Val Cavargna: un centinaio di piccole case di montagna raggruppate l’una accanto all’altra, a 1.200 metri d’altezza e abitate soltanto per alcuni mesi dell’anno, quando il bestiame veniva condotto all’alpeggio. Lì, verso le 17.30 del 1° aprile 1943, un malaugurato gioco tra bambini con i fiammiferi fece scoccare la scintilla del rogo che costò la vita a cinque persone: Lucia Mancassola, Lucia Pozzi, Carlo Pozzi, Caterina Canova e la figlia Maddalena Mancassola. In breve, a causa del forte vento che spirava quel giorno, le fiamme si propagarono a tutti i cascinali e alle baite. Il primo allarme fu dato dagli insistiti rintocchi delle campane di Cusino. Vari focolai si accesero anche sui monti e nei boschi circostanti. I vigili del fuoco giunti da Como riuscirono a intervenire quando era ormai sera. Con loro anche soldati e guardie forestali. Fu dura e richiese molto tempo salire fino a Oggia – “ in Oggia”, come dicono i locali – che distava circa tre quarti d’ora di strada mulattiera da San Bartolomeo. Di tutto parliamo con Lorenzo Curti, 28 anni, geometra e appassionato di storia e cultura locale nonché membro del gruppo folcloristico Val Cavargna, e con sua nonna, Lucia Curti, testimone diretta dei fatti. Lorenzo, come venne a sapere per la prima volta di questa tragedia? «Fin da piccolo. Ho la fortuna che i miei quattro nonni, tutti di San Bartolomeo, siano tuttora viventi e mi hanno sempre raccontato dell’incendio che distrusse Oggia. Nonna Lucia lo fa, se possibile, in maniera ancora più forte e rimarcata. Quest’anno, il primo aprile, mi ha detto: “Pensa che settant’anni fa non avevamo più niente. Avevamo poco, ma quel poco l’avevamo perso”. Vivevano lì, a Oggia avevano gli animali?». Perché sente quella sciagura così vicina a sé? «Perché, quando ero un bambino, io finivo la scuola in giugno e poi stavo due mesi fisso a Oggia. Trascorrevo lì le mie vacanze estive. Ricordo la festa di Maria Ausiliatrice, molto sentita. Oggia ce l’ho nel sangue. E’ legata ai miei nonni, che fino a pochi anni fa portavano ancora a Oggia la mucca. Io li seguivo nel taglio dell’erba per il fieno? Così venivano tenuti puliti anche i prati. Una volta la frazione era tutta circondata dal verde. Adesso è rimasto il paesino, ma tutto chiuso da boschi perché è venuta meno quell’attività». Lorenzo sa individuare ancora oggi qual è la baita da dove partì l’incendio. Oggi, al suo posto, c’è una casa. Racconta anche la sfortuna di quel maledetto tardo pomeriggio: i bambini giocavano con i fiammiferi in un punto posto in alto, nella parte più a nord della frazione. E c’era un vento fortissimo che tirava verso sud. Con le baite e le cascine vicine le una alle altre, i tizzoni accesi volavano così di tetto in tetto. Le coperture erano tutte realizzate secondo la tecnica detta “fin de paja”, una struttura molto complicata fatta con paglia di segale, molto infiammabile. In un’ora Oggia bruciò. «Il fuoco – conclude – arrivò fino a Tavagnagh, un’altra piccolissima frazione ben distante da Oggia e si fermò lì». Signora Lucia, quanti anni aveva al momento del fatto? «Dieci anni. L’incendio mi riporta alla mia triste infanzia e mi ha segnato per sempre». Cosa ricorda di quel momento? «Tornavo da scuola verso casa, dove vivevamo senza acqua né luce. Io sono cresciuta a Oggia, mi hanno portato lì quando avevo appena otto giorni di vita. Papà e nonno erano morti, avevo la mamma e la nonna che faceva di tutto. Governava gli animali. Da San Bartolomeo vidi che a Oggia c’era fuoco. Salii di buon passo per cercare la nonna , ma a causa del fuoco non si riusciva già più ad arrivare fino alle case. Trovai una donna tutta ustionata; non rintracciai invece la nonna. Dormimmo a San Bartolomeo da parenti. L’indomani mattina tornammo a Oggia e finalmente trovammo la nonna in un luogo più in alto, con gli animali, nella zona delle baite dove andavamo d’estate. Era riuscita a fuggire fin lì e a ripararsi perché il vento soffiava verso il basso e alimentava il fuoco in quella direzione. Aveva i vestiti e i capelli bruciati. Era crollato il tetto della casa e lei era rimasta sulla porta; si salvò perché un uomo aveva gettato un secchio di latte addosso ai suoi vestiti. Vidi anche i morti, le donne che erano asfissiate in casa. Poi, quando l’incendio fu del tutto domato, iniziò il duro lavoro anche per noi bambini. Cominciammo la ricostruzione. La mamma andava a recuperare la calcina a fondo valle. La nonna non si scoraggiava mai, non l’ho mai vista piangere. Dovevamo arrangiarci perché gli uomini erano tutti in guerra. C’erano soltanto vecchi e bambini. Non c’era la strada e anch’io andavo fino a Cusino a prendere le tegole: impiegavo due ore di cammino, ne trasportavo due o tre per volta. Qualcuno procurava il legname…». Qual era la maggiore preoccupazione degli adulti? «Il fatto di non avere più niente, nemmeno un vestito. Anch’io non avevo più niente. Erano andate distrutte dal fuoco anche le uniche scarpe che avevo. Nella cartella di scuola avevo 25 lire che mi aveva dato la nonna per comperare un libro. Ero riuscita a portarla con me per tutta la notte…». Conosceva le vittime? «Sì e per fortuna quando scoppiò l’incendio non era notte, altrimenti i morti sarebbero stati molti di più, anche tra i bambini. Invece, quasi tutti riuscirono a scappare. Forse non ce l’ha fatta chi ha cercato di salvare qualcosa». Che danni ebbe la sua famiglia? «Salvammo le mucche e per il resto perdemmo tutto. Con le mucche riuscivamo ad avere latte e formaggio. Di sabato andavamo a piedi fino a Menaggio per vendere qualche uovo. Il pane lo facevamo noi con segale e patate. Non smettevamo mai di lavorare. Camminavamo per ore senza essere stanchi. Andavamo di notte fino in Altolago, magari per recuperare un sacco di riso, a volte in mezzo alla neve? E’ giusto che i giovani sappiano. A dodici anni io facevo già la cameriera in un ristorante di Porlezza; lavoravo venti ore al giorno». Il 3 aprile venne in visita a San Bartolomeo anche il cardinale di Milano, Alfredo Ildefonso Schuster. Cosa ricorda dei funerali? «Ricordo una ragazza che aveva perso sorella e mamma. Mi disse: “Almeno tu hai ancora i parenti”. Due giorni dopo morì anche lei per il dispiacere. Ai funerali c’era tanta gente, venuta da tutta la vallata. Ricordo il suono delle campane. Una cosa indimenticabile. Per tanto tempo restò nell’aria la puzza di bruciato e ancora oggi, quando passo da Oggia, mi sembra di sentire quell’odore». Marco Guggiari