«Non perdonerò mai chi uccise mio marito»

«Non perdonerò mai chi uccise mio marito»

Parla la moglie Laura: «Donai i suoi organi perché lui sarebbe stato lieto di farlo» Sebastiano d’Immè era un carabiniere appena 31enne quando morì per mano omicida sotto i colpi sparati da due banditi. Era estate, una stagione che doveva essere dolce come la vita di chi, solo un anno prima, aveva detto sì sull’altare a Laura, la sua giovane sposa. Tutto finì a Locate Varesino, paese che, ad onta del nome, fa parte della provincia di Como. D’Immè e un collega erano arrivati a bordo di un’auto civetta per bloccare una vettura sospetta fuggita da un precedente posto di blocco. Sebastiano era maresciallo, in servizio da sei anni al reparto operativo del comando provinciale di Como. Quel mezzogiorno del 6 luglio 1996 andò in onda un film western, purtroppo più vero del reale. Proprio di fronte al municipio di Locate i due colleghi intimarono l’alt alla macchina ricercata. Gli occupanti finsero di scendere e scaricarono subito sui militari dell’Arma un inferno di fuoco sparando con una pistola e con una mitraglietta. D’Immè rispose al fuoco, ma fu colpito in più punti. Un proiettile si conficcò nella carotide provocando una grave emorragia. Ricoverato prima a Tradate e poi a Varese, fu sottoposto a un delicato intervento neurochirurgico durato cinque ore. Nella notte fu dichiarato clinicamente morto e la moglie decise di donare gli organi dell’uomo che amava. Sebastiano spirò il 7 luglio. Quarantasette giorni dopo, il 23 agosto, i suoi due assassini vennero intercettati a Milano da colleghi della vittima. Quando si videro perduti inscenarono una nuova sparatoria. I militari risposero al fuoco. Un malvivente morì, l’altro rimase gravemente ferito. D’Immè era originario di Militello Val di Catania, in Sicilia. Al suo funerale, nel Duomo di Como gremito di tanta gente comune, era presente anche il ministro dell’Interno dell’epoca, ora rieletto capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e il suo collega della Difesa, Beniamino Andreatta. Nel 1998, per volere del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, al coraggioso carabiniere fu conferita la medaglia d’oro al valor militare “per l’altissimo senso del dovere, spinto fino all’estremo sacrificio”. La moglie Laura, pur a fatica, ha accettato di ricordare quei fatti nella chiacchierata che segue. Signora, nei giorni scorsi altri carabinieri sono stati colpiti mentre erano in servizio. Cosa si sentirebbe di dire ai loro familiari? «Io avevo 27 anni quando è morto mio marito. Nei giorni scorsi mi sono rivista in Martina, la figlia del brigadiere Giuseppe Giangrande ferito a Roma davanti alla sede del governo. A lei vorrei dire di pensare sempre con la sua testa, come le detta il cuore, proprio come ho fatto io cercando di rispettare sempre i valori di mio marito. Ai familiari di chi è scomparso dico che verranno momenti difficili. All’inizio ci sono tutti, poi verranno i momenti in cui ti chiedi perché il telefono non suona… Quando una morte è violenta, causata da mano armata, il lutto subito è ancora più difficile da elaborare». Come aveva conosciuto suo marito? «Lavoravo in un negozio di Vimercate e Sebastiano veniva saltuariamente lì perché era impegnato nella locale caserma. Abbiamo incominciato a frequentarci. Poi lui è stato trasferito a Como, ma siamo andati avanti fino al matrimonio». Che tipo di persona era? «Era molto rispettoso e altruista. Piuttosto che offendere una persona, preferiva stare male lui. Era un uomo umile, e non lo dico solo perché non c’è più. Io lo ricordo così e me lo hanno confermato tanti che l’avevano conosciuto bene». Non parlava mai dei rischi del suo lavoro? «No. Mi diceva: “Devo partire, devo fare”. Io rispondevo: “Vai , non mi dire dove sei, basta che mi chiami qualche volta e ti ricordi che ci sono. Meno so, meglio è”. Anche quando tornava, non chiedevo. Io avevo grande rispetto del suo lavoro, credevo nella discrezione. Accanto a lui ho imparato quando parlare e quando no. Oggi sarei più ansiosa. Allora, così giovane, ero molto più lieve nei miei pensieri». Quel giorno come seppe cos’era accaduto? «Era un sabato mattina, ricordo tutto minuto per minuto e non dimenticherò mai. Ero tornata dal lavoro e stavo riordinando la casa. Chiamarono mio marito perché c’era un servizio da fare. Lui telefonò a mio papà che era ammalato e gli disse: “Torno alle due e vengo a trovarla”. Mentre riassettavo avevo la tv accesa. Suonò il citofono. Io, poco prima, avevo sentito dire in tv che c’era stata una sparatoria e che un carabiniere era rimasto ferito. Mi affacciai al balcone e vidi il capitano, che conoscevo. Gli aprii e nel tempo che mi occorse per rientrare dal balcone e andare ad aprirgli pensai: “È successo qualcosa”. Salì e mi disse che Sebastiano era rimasto ferito in una sparatoria? Io ruppi qualcosa in casa per la rabbia. Chiesi, se mio marito era ferito o morto. Rispose che era ferito e mi invitò ad andare con lui all’ospedale. All’ospedale di Varese trovai il generale Luigi Federici, all’epoca comandante dell’Arma, che per me fu come un padre, una persona speciale. Al momento mi dissero che Sebastiano avrebbe perso un occhio. Ma non era così, era stato colpito in modo molto più grave. Era già morto cerebralmente…». Come decise di dare l’assenso alla donazione degli organi di suo marito? «Eravamo davanti alla Rianimazione dell’ospedale di Varese. Pioveva a dirotto. Il medico uscì e disse che voleva parlarmi. Entrai da sola e mi comunicò che ormai non c’era più niente da fare e che, se io ero d’accordo, si potevano donare gli organi. Mi spiegò tutto. Risposi che ci dovevo pensare. Uscii in cortile da sola e mi misi a camminare avanti e indietro. Ero fradicia di pioggia. Rientrai e dissi: “Va bene, dove devo firmare?”. Conoscendo mio marito pensai che sarebbe stato contento di questa scelta. Ma ho sempre scisso la donazione dal fatto che lui potesse rivivere in altre persone perché non è così. Lui non c’è più». Signora, in cuor suo lei ha saputo perdonare chi ha ucciso suo marito? «Certe cose non si cancellano e non si dimenticano. Io non li perdono e non li perdonerò mai. Credo in Dio e ci insegnano a perdonare, ma non si può togliere la vita a un ragazzo di 31 anni? Io non parlo mai di me, perché la mia vita bene o male è andata avanti, ma penso a lui. No, non perdonerò mai queste persone. Hanno tolto la vita, hanno tolto tutto». C’è un messaggio di suo marito che vorrebbe riproporre a tutti? «Forse ho imparato questo. Io pensavo che avesse la divisa cucita addosso. Più di una volta ho provato a dirgli di cambiare lavoro, ma non ho mai ottenuto niente. Lui non ha mai cambiato. Ecco, io non dirò mai a nessuno di cambiare la decisione che ha preso, la scelta che ha fatto, il lavoro nel quale si è impegnato. Perché, è vero, mio marito è morto, ma nel modo migliore in cui lui poteva morire. Erano la sua strada, la sua vocazione, e anche se l’hanno portato alla morte, lui sarebbe stato orgoglioso di finire così. Poteva morire in qualunque altro modo. È accaduto mentre faceva ciò in cui credeva». Marco Guggiari