«Il mio amico Roberto Ruffilli era mite e determinato»

L’avvocato comasco Grazia Villa ricorda lo studioso e senatore Dc assassinato dalle Br Discorrere di cultura politica con l’avvocato Grazia Villa è come aprire l’album delle figure di riferimento del cattolicesimo democratico. Fin dagli anni della sua giovinezza, la professionista comasca ha infatti avuto il privilegio di frequentare personalità del valore di Giuseppe Lazzati o Giuseppe Dossetti, per citare due padri della Costituzione italiana. Presidente in scadenza di secondo mandato della “Rosa Bianca”, associazione nazionale liberal e personalista di cattolici per l’educazione alla politica e alla democrazia, nel colloquio che segue Grazia Villa ricorda con fortissima partecipazione umana Roberto Ruffilli, studioso, storico e senatore Dc assassinato dalle Brigate Rosse venticinque anni fa, il 16 aprile 1988. Forlivese, 51enne, Ruffilli fu ucciso con le modalità di una spietata esecuzione. I terroristi entrarono in casa sua travestiti da postini, lo fecero inginocchiare e gli spararono alla nuca. Nella stanza continuarono a diffondersi le note musicali che il senatore stava ascoltando. «Era un disco di Mozart – dice Grazia Villa – Per mesi non sono più riuscita a sentire quella musica». La vittima del tragico agguato era stato consigliere del nuovo capo del governo, il democristiano Ciriaco De Mita, nominato da pochi giorni. Nel numero monografico della rivista “Appunti di cultura e di politica” del maggio 1998 dedicato a Ruffilli, Paolo Giuntella ipotizza il movente del delitto: lo studioso romagnolo, proprio dieci anni dopo Aldo Moro, fu colpito perché era un simbolo. Venne abbattuto alla vigilia del voto per la fiducia a un governo che, con le ipotizzate riforme istituzionali, avrebbe dovuto riaprire prospettive di democrazia compiuta e di alternanza alla guida del Paese. Avvocato Villa, come conobbe Roberto Ruffilli? «Lo conobbi nell’ambito dell’esperienza della Lega Democratica, associazione di cultura politica attiva tra il 1974 e il 1984. In seguito, con la “Rosa Bianca”, riprendemmo le scuole di formazione della Lega Democratica. Io feci parte della giunta nazionale con Fulvio De Giorgi, Beppe Tognon, Paolo Giuntella, Roberto Pertile, Achille Ardigò, Pietro Scoppola, Nicolò Lipari e, appunto, Roberto Ruffilli. Fu un’esperienza molto formativa e costruì relazioni significative. Ci incontravamo a Roma due volte al mese, ci mettevamo tutti intorno a un tavolo per esprimere posizioni politiche. Ciascuno dava un voto motivato. A Roma io ero ospite di Paolo e Laura Giuntella. Ruffilli veniva a cena da loro e i figli piccoli dei padroni di casa lo chiamavano affettuosamente “zio Bobo”». Che tipo di persona era Roberto Ruffilli? «Un uomo mite e determinato; un grande giurista, consapevole però dei limiti del diritto e della politica. Io e altri, all’epoca, eravamo giovani e movimentisti. Lui ci richiamava alla cultura istituzionale. La sua bonomia e la sua capacità di relazionarsi con i giovani ne faceva un interlocutore privilegiato per tutti noi. Ci accapigliavamo in appassionate discussioni fino alle tre del mattino e Roberto non si arroccava mai». Quale fu il suo ultimo contatto con Ruffilli prima che fosse assassinato? «Ricordarlo mi scuote e mi emoziona tuttora profondamente. In vista della scuola di formazione della “Rosa Bianca” che si sarebbe tenuta nell’estate del 1988 a Brentonico, in Trentino, scrissi a Roberto Ruffilli per invitarlo. Aveva pubblicato un libro bellissimo, “Il cittadino come arbitro”, e il titolo della scuola era: “Cittadini o sudditi, ricchi e poveri di potere nella democrazia che cambia”. Scrissi quella lettera e la imbucai il 7 aprile. In precedenza ci eravamo visti il 16 marzo a Milano. Quel giorno avevamo scherzato, io e altri lo chiamavamo senatore e lui si arrabbiava perché, con quel titolo, gli pareva di essere vecchio agli occhi delle donne… Dunque, tutta la prima parte della mia lettera era di presa in giro. Più raccapricciante, alla luce di quanto poi accadde, era la parte finale per la quale, in seguito, io piansi per mesi. Davo a Roberto tre opzioni per rispondere al mio invito e lo rassicuravo che se avesse scelto la terza, vale a dire l’accettazione dell’invito, avrebbe avuto tutto il tempo che desiderava per definire i particolari della sua lezione. Sottolineai con la penna proprio quell’espressione: “tutto il tempo che vorrai”… La lettera non fu trovata in casa sua dagli inquirenti. Forse era nella valigetta che i terroristi portarono via». Come seppe dell’assassinio? «Stavo andando a Roma al consiglio nazionale della “Rosa Bianca” assieme ad altri amici che ne facevano parte. Io tirai fuori la fotocopia della lettera d’invito a Roberto Ruffilli per la scuola di formazione politica. Mentre la leggevo ridevamo degli aspetti scherzosi di quella missiva. Dopo aver mangiato in un autogrill ripartimmo, ma poco dopo ci fermammo di nuovo davanti a un motel perché qualcuno doveva fare una telefonata. Io restai in auto. A un certo punto vidi gli altri sulla soglia della porta che facevano ampi gesti verso di me e dal labiale mi pareva di leggere “Ruffilli”. Avevamo appena scherzato parlando di lui e mi chiedevo perché lo nominassero. Scesi, entrai nella hall del motel dove un televisore trasmetteva un’edizione straordinaria del telegiornale… Poi non ricordo più nulla perché svenni». Perché le Brigate Rosse scelsero proprio Roberto Ruffilli? «Il volantino che rivendica l’attentato spiega tutto. Roberto Ruffilli era sulla stessa linea di altre vittime del terrorismo, come Vittorio Bachelet. Era sulla linea della mitezza e della moderazione, nel senso che era un riformista, ma impegnato nella mediazione. Queste caratteristiche ne facevano per le Br il nemico numero uno: era tra coloro che puntavano a riformare lo Stato, perpetuandone l’esistenza. Così la democrazia si rinnovava e il conflitto sociale si risolveva. Per questo era percepito come più pericoloso rispetto ad altri, che magari erano più in vista di lui». Cosa resta del messaggio di Roberto Ruffilli? «Resta il suo pensiero politico in questo periodo di fame di riforme. E poi Roberto era anche uomo di fede, sia pure piena di dubbi, com’era lui, di ricerca di Dio. Va riscoperto tutto il suo insegnamento sul fronte ecclesiale». Marco Guggiari