«Giù le mani dalla magia del presidente»

Il costituzionalista dell’Insubria Giuseppe D’Elia: «La politica rispetti di più la sua figura» Dopodomani il Parlamento si riunirà in seduta congiunta, integrato dai delegati regionali, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È un rito solenne che, come prevede la Costituzione, si ripete ogni sette anni. L’esito degli scrutini, talvolta andati subito a buon fine, più spesso numerosi ed estenuanti, è la designazione della figura più prestigiosa del sistema istituzionale italiano. Ne parliamo con Giuseppe D’Elia, dal 2001 docente associato di Diritto Costituzionale al corso di laurea magistrale in Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria. Classe 1969, milanese, D’Elia è stato anche assistente di Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale e uno dei dieci “saggi” incaricati a fine marzo da Giorgio Napolitano di scrivere la road map delle riforme necessarie al Paese. Professor D’Elia, su quale tra le prerogative del presidente della Repubblica porrebbe l’accento per il prossimo inquilino del Quirinale, tenuto conto del tempo che stiamo vivendo e delle caratteristiche di questo avvio di legislatura? «Sulla formazione del governo. Quella del presidente è una tra le figure più belle. Oscilla tra due poli: da mero organo di garanzia a reggitore dello Stato nelle situazioni di crisi. Dico questo tenendo conto delle specificità del nostro sistema politico e partitico e del ruolo peculiare del capo dello Stato. Il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere nel cosiddetto “semestre bianco”, l’ultimo periodo del suo mandato. Le forze politiche possono quindi resistere sulle loro posizioni. Con il successore di Napolitano, che non avrà questo vincolo imposto dalla Costituzione, saranno incentivate a trovare un accordo per il timore di non conseguire un successo elettorale qualora si andasse al voto…». C’è stata una svolta a un certo punto, diciamo verso la fine anticipata del settennato di Giovanni Leone. Lì, secondo alcuni analisti, si è passati dai presidenti notai a quelli interventisti. «Questo è un dato interessante. In realtà, non è la persona del presidente ad avere un atteggiamento più o meno da protagonista. Tutto dipende dal quadro politico. Non dimentichiamo che il primo governo del presidente, come si dice oggi, fu quello di Giuseppe Pella, varato nel 1953 dal capo dello Stato dell’epoca, che era Luigi Einaudi… Lo richiedeva la situazione, dopo la caduta di De Gasperi. Sandro Pertini, secondo quanto tutti ricordano, fu il presidente più amato. Intervenne molto, ma sempre per via del quadro politico. Voglio dire che i capi dello Stato sono interpreti della situazione e agiscono di conseguenza. E noi dobbiamo giudicarli senza sradicarli dal quadro socio-politico dell’epoca del loro mandato». Periodicamente si parla tanto di Repubblica presidenziale o semipresidenziale, ma è chiaro che questa trasformazione potrebbe avvenire solo in virtù di un profondo cambiamento della Costituzione. Come valuta questo modello per l’Italia? «Le Costituzioni migliori sono le più longeve e non il contrario. Io non credo che il quadro politico attuale sia in grado di formare un Parlamento capace di mettere mano alla Costituzione nella parte relativa alla forma di governo senza fare disastri. In altri termini, dubito che ci sia una cultura politica diffusa capace di toccare la parte tecnica più delicata della nostra Carta fondamentale. Aggiungo che, a mio parere, gli asseriti difetti della Costituzione, in realtà, sono propri della politica italiana. Mi spiego: il sistema elettorale e la forma di governo devono adattarsi al Paese. Vediamo come l’attuale sistema elettorale, il “porcellum”, ha creato una frattura, forzando la situazione. Da noi i cittadini faticano a mettersi d’accordo e i partiti ne sono l’espressione… Sono convinto che in Italia debba resistere la forma di governo parlamentare, magari con correttivi come l’obbligo della sfiducia costruttiva a un governo. È un comparatismo sempliciotto calare nella nostra cultura politica il sistema francese, caratterizzato da un presidente privo di contropoteri». Nella serie dei presidenti della Repubblica italiana, fino a un certo punto e con l’eccezione del passaggio da Gronchi a Segni, si è cercata l’alternanza tra un cattolico e un laico. Dopo Cossiga non è più avvenuto. Ha ancora senso questo criterio? «Originariamente c’era una forza politica, la Democrazia Cristiana, che rappresentava quasi in via esclusiva l’area cattolica. Con la disgregazione della Dc, le varie correnti che ne facevano parte si sono spostate su altri partiti vecchi e nuovi. Oggi i cattolici sono in tutti i partiti, pur esistendo aree o piccoli movimenti esclusivamente cattolici. Ecco perché nelle scelte importanti non si è più avvertita come prioritaria questa specificità. Un altro motivo è certamente la laicità che si è affermata nel nostro Paese. In definitiva, meglio così: il presidente della Repubblica dev’essere un mediatore, un consigliere, non laico o cattolico». Cosa pensa dell’altro criterio di alternanza che qualcuno invoca: un presidente garante di tutti, ma volta a volta espressione di uno dei due maggiori schieramenti? «La premessa con la quale rispondo è: cosa garantisce la neutralità che appartiene alla funzione di capo dello Stato? Non è la provenienza. Sono solito dire che ci sono tre fondamentali elementi di garanzia che attengono all’elezione del presidente, alla durata del suo mandato e a quanto succede dopo. L’elezione avviene a scrutinio segreto; la durata del mandato è diversa da quella della legislatura; il capo dello Stato uscente diventa senatore a vita di diritto. Tutto questo basta e avanza». Qual è la sua valutazione, da costituzionalista, sul mandato del presidente Giorgio Napolitano? «Complessivamente considero apprezzabile il suo operato, soprattutto nella parte terminale del mandato. Siamo in presenza di una situazione difficile che egli sta gestendo come meglio non potrebbe. Ha affrontato una difficoltà obiettiva in modo più che egregio, anche con la nomina dei “saggi”, il cui lavoro potrà servire a chi verrà dopo Napolitano e al futuro governo del Paese. Credo che il presidente uscente sia stato troppo vittima di accuse ingiuste di non essere neutrale e che le abbia rette bene. Gli insoddisfatti sono portati a considerarlo partigiano. In realtà, la politica dovrebbe rispettare di più la figura del capo dello Stato. Non dovrebbe trascurare che con la sua condotta fa e disfa la cultura di un Paese. È una magia che sta scritta nella Costituzione. Attenzione, quindi, a toccarla». Marco Guggiari