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Come andrà a finire, la parola a Marte Ferrari

«Mi auguro che almeno una parte dei “grillini” esca dall’aula e permetta la fiducia» Da cinque anni non abita più a San Fermo, ma a Romanò Brianza (Inverigo), zona nella quale ha ricordi giovanili del tempo in cui era impegnato come sindacalista. Mi accoglie nella sua graziosa casa a schiera e mi conduce nello studio d’architetto della figlia Rossella, dov’è incorniciato un articolo di giornale intitolato “La forza dell’onestà, la certezza di un impegno”, con una fotografia che lo ritrae assieme al presidente della Repubblica Sandro Pertini, che lui chiama affettuosamente Sandro. Il discorso scivola spesso sul tema del lavoro. Si coglie il rispetto per i parlamentari comaschi di altre casacche, pur avversari politici dei suoi tempi. In Marte Ferrari (foto in basso a destra), 84 anni, sono intatte la semplicità e la passione politica di una vita. Militante socialista da sempre, la sua iscrizione risale al 1945, dice con un po’ di rimpianto: «Hanno sciolto il Psi, con il mio voto contrario». Sindacalista nella Cgil per oltre trent’anni, deputato dal 1976 al 1994, ha fatto anche il vicesindaco di Como nelle due giunte guidate da Felice Bernasconi. La lunga militanza e l’esperienza maturata ne fanno un osservatore prezioso alla vigilia del via per una legislatura che si preannuncia, a dir poco, complicata. Come vede la situazione politica? L’Italia avrà un governo? «Secondo me, sì, anche se oggi le strutture politiche sono frastagliate? Quelli della mia generazione, nati dalla Resistenza, sono cresciuti con gli ideali della libertà e della democrazia. Mio papà era contadino, aveva una piccola azienda agricola; i miei zii erano morti in guerra. Noi giovani di allora prendevamo esempio da questa storia? Eravamo animati da spirito costruttivo, dalla consapevolezza che bisognava arrivare a proporre soluzioni perché l’uomo è fatto per creare, non per distruggere. Adesso vedo che i “grillini” non si conoscono nemmeno tra loro. Non nascono dall’attività di circoli; hanno soltanto firmato documenti per essere candidati. Mi auguro che almeno una parte di loro esca dall’aula del Senato per permettere la fiducia a un governo». A lei, parlamentare di lungo corso, è capitata una situazione così incartata? «Direi proprio di no, nemmeno nel 1978, l’anno terribile in cui fu rapito e ucciso Aldo Moro. Perché allora, sotto la minaccia del terrorismo, non ci fu più divisione ma più unione; si rafforzarono le scelte per rispondere a chi metteva in discussione la politica. Oggi, sotto la minaccia della crisi economica, dovrebbe avvenire altrettanto. Migliorare le condizioni di vita degli italiani dovrebbe essere una preoccupazione comune. Se non è così, evidentemente, è perché sono venuti meno l’altruismo e la solidarietà». La chiave di volta, alla fine, quale sarà? «Ripeto, al momento giusto qualcuno uscirà dall’aula. Il Pd e la coalizione che ha aggregato, oggi, sono maggioranza alla Camera e quello stesso partito ha la maggioranza relativa anche al Senato? Occorre tornare alla Costituzione. E, al di là del voto di fiducia, i cittadini non devono assentarsi, nemmeno nelle cose piccole. Sto leggendo un libro di Antonio Pizzinato (già segretario generale della Cgil, ndr). Si intitola “Viaggio al centro del lavoro”. Beh, prendiamo proprio il lavoro: se c’è bisogno di cinquanta muratori italiani, oggi non si trovano. Io ricordo che nella tinto stamperia Valmulini c’era un ingegnere che lavava i quadri di stampa e non se ne vergognava. Al giorno d’oggi, invece, sembra che il lavoro materiale, quando c’è, venga respinto». Venerdì si apre la legislatura. Com’è l’impatto di Montecitorio o di Palazzo Madama per un neoeletto? «Guardi, la prima volta che io fui eletto, nel 1976, arrivai in piazza Montecitorio e mi imbattei in un giornalista della Rai a caccia di neoeletti. Dissi: “Io cerco di vedere com’è fatto il palazzo perché prima di parlare devo capire”. Imparai da Aldo Aniasi (sindaco di Milano, poi ministro e vicepresidente della Camera, ndr)». Quali sono i primi adempimenti per gli inquilini di questi palazzi? «L’accoglienza con iscrizione, fotografia, firma, comunicazione dell’indirizzo, schedatura sulla base della lettera di convocazione. Ai miei tempi c’erano emozione e una certa soggezione. Bisognava indossare la cravatta, attendere l’assegnazione del posto, imparare le regole. Non è che si può parlare quando si vuole?». Lei ha fatto anche esperienze di governo. Qual è l’incarico di sottosegretario a cui è più legato, quello che le ha dato maggiore soddisfazione? «Sì, sono stato due volte sottosegretario ai Lavori pubblici, con i presidenti Goria e De Mita, e una volta al Bilancio, con Andreotti. Ho avuto parecchie soddisfazioni, come aver lavorato per la galleria da Dongo a Menaggio e per quella di Porlezza, per i fondi della Legge Valtellina, seguita all’alluvione del 1987, per l’ospedale di Menaggio, per la Pretura di Erba, per la sede della Motorizzazione civile, che non si poteva mai inaugurare perché da lì doveva passare una strada. Altre soddisfazioni le ho avute impegnandomi per i pensionati e per i frontalieri. Tutto nasceva dalla presenza sul territorio, dalla discussione, dalla sezione, da una vita più collettiva. Il rischio è che oggi questo non avvenga e invece è fondamentale, perché ci guadagna la gente». Adesso di cosa si occupa? «Seguo i consigli comunali qui a Inverigo. Segnalo piccoli problemi per la vita dei cittadini. A volte scrivo a interlocutori anche a livello nazionale e, in genere, ricevo risposte». L ei è di Reggio Emilia, com’è arrivato a Como? «Per la precisione, sono nativo di Scandiano, lo stesso paese di Romano Prodi. Una mia sorella svolgeva attività di patronato nella locale sezione della Cgil. Mi impegnai anch’io lì. Un giorno, un sindacalista, che era segretario nazionale dei minatori, mi spedì a Lecco al posto di qualcuno che da lì andava a frequentare un corso di tre mesi a Roma. Poi, nel 1950, fu la volta di Como e da allora non lasciai più il Lario». Nel Reggiano era difficile scegliere il Psi e non il Pci? «Ma no, figuriamoci. Mio papà era socialista e in famiglia avevamo sia socialisti che comunisti». Marco Guggiari

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