Vent’anni fa chiudeva Radionova, mix di informazione e di rubriche

Alberto Giussani, fondatore con la moglie Antonietta, ricorda il periodo epico Vent’anni fa chiudeva Radionova 88, l’emittente cattolica comasca unica nel suo genere, dai cui studi sono passati giornalisti poi approdati ad altri lidi. Ricordare quell’esperienza significa riandare con la mente all’intuizione di un giusto mix di formazione e di informazione. Da subito, Radionova ebbe il merito di aprire i suoi microfoni a tutti e di diventare, con scarsissimi mezzi economici, una compagnia quotidiana per tanti ascoltatori che non mancavano poi di far sentire la loro voce, chiamando in diretta. Rubriche culturali, di intrattenimento, e un notiziario puntuale nel quale non mancavano la cronaca nera e giudiziaria erano il palinsesto di un’emittente che, a modo suo, rappresentava una sorta di Portobello animato dalla simpatia di personaggi capaci di creare la giusta chimica di un’empatia popolare. Ne parliamo con Alberto Giussani che con la moglie Antonietta Macinanti, ha voluto, animato e dato generosamente di tasca propria perché la radio avesse gambe per camminare. Come nacque Radionova? «Da un colloquio con don Giovanni Valassina, allora parroco di Sant’Agata a Como. La nostra prima sede fu proprio lì e l’antenna era sul campanile. Era il 1977. Per insonorizzare le pareti usammo contenitori per uova che fungevano da pannelli fono-assorbenti? Leggevamo i nostri primi notiziari alle otto di sera, restando in piedi nello spazio angusto di un corridoio. E per mantenerci, dal momento che la nostra non era una radio commerciale, avevo inventato la formula dell’abbonamento: mille lire al mese, sui quali pagavo l’Iva». Era una radio cattolica, ma aperta a tutti? Qual era la formula che dava l’impronta? «L’impostazione era semplicemente l’apertura a tutti, dare voce a tutti. Prevalevano rubriche e rassegne stampa. Avevamo la collaborazione di giornalisti esperti come Angelo Soldani, Angelo Curtoni, Paolo Bustaffa che, inizialmente, fu direttore responsabile. Poi toccò a mia moglie Antonietta. Io gestivo la contabilità. Occorreva precisione perché la nostra forma giuridica era quella cooperativistica ed erano previste verifiche da parte del ministero delle Comunicazioni». Dopo Sant’Agata, vennero le sedi di San Filippo, lato via Ferrari, dove adesso c’è il parcheggio a raso dell’ospedale Valduce, e di via Odescalchi in un bell’edificio in centro Como. Ma lo stile non cambiò. «Sì, ci spostammo man mano che ciò si rendeva necessario. Facevamo dodici ore di diretta e non mancava lo sport. Facevamo la cronaca delle partite del Calcio Como, via telefono, a cura di un cronista volta a volta della squadra avversaria degli azzurri venuta sul Lario. E questo era garanzia di non partigianeria. Lo stesso, a ruoli invertiti, avveniva in trasferta». Le rubriche di Radionova hanno tracciato una via. Vogliamo ricordarne alcune tra le tante? «Tra le cose più curiose, ricordo i giochi a carte alla radio! E c’erano premi, tutti offerti da sponsor. Inventammo il Vangelo in dialetto, nome della rubrica era “E l’è dumeniga” con Orazio Sala, scomparso nei giorni scorsi. Avevamo la lirica, alla domenica mattina, con Arnaboldi e, durante la settimana, con Flora Perez. Davamo anche la possibilità di andare alla Scala di Milano. C’era il teatro: la commedia “Ul rungiun” con attori di Radionova, Cremonesi, Bernasconi, Quadrio? Al mattino conduceva Sandro Cima e io leggevo il notiziario prima di andare al lavoro in banca; al pomeriggio, invece, conduceva Antonietta. Il primo giornalista a libro paga fu Mauro Vanzini, gli altri avevano collaborazioni secondo la formula coordinata continuativa». Qual era il fiore all’occhiello dell’emittente? «Direi le interviste a tutti i personaggi con l’accortezza di evitare che chiunque di loro diventasse invadente e debordante». Come si sosteneva economicamente Radionova? «Sempre con la formula dell’abbonamento che mi premuravo di recapitare io personalmente alla scadenza annuale. La società italiana era più semplice, c’era spazio per tutti, anche se non mancavano le difficoltà. Per dirne una, i danneggiamenti ai nostri trasmettitori sul Monte Croce. Quando tutto si complicò, venne il momento di fare un passo indietro. Lasciammo alla curia della Diocesi di Como». Da Radionova sono passati giovani poi diventati giornalisti in varie testate dell’etere e della carta stampata, comasche e nazionali. Come vivevate questo ruolo di “allenatori” destinati a rinnovare continuamente il vivaio per tutta la durata dell’esperienza, vale a dire diciassette anni? «Era scontato che ciò avvenisse, vista la limitatezza delle nostre risorse. Eravamo consapevoli che chi imparava il mestiere sarebbe poi migrato verso altri lidi. Ricordo Marina Moretti, oggi a Etv, prima donna a leggere il radiogiornale; e poi Franz Tagliaferri, ora a Mediaset. E tanti altri». Può raccontare qualche aneddoto? «Per esempio, la difficile ricerca di ponti che ci permettessero di arrivare in Altolago. Bisognava evitare montagne e ostacoli. Era tutta una triangolazione: dal Monte Croce andavamo verso il Varesotto, da lì verso Bellagio e dalla “perla del Lario”, finalmente, a Gravedona. Poi ricordo l’importanza di persone che avevano handicap e lavoravano con noi; c’era chi si prestava per accompagnarli e venirli a riprendere. Si creavano difficoltà organizzative, ma anche questo era un valore». C’è un rammarico? «Sì, non essere riusciti a passare il testimone nel vero senso della parola». Marco Guggiari