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La malattia della città sporca vista da un operatore ecologico

Arcangelo Trombetta ha lavorato per dieci anni come “raccoglitore” Arcangelo di nome, grintoso di fatto. Un burbero, capace però di aiutare le persone, lascia intendere la moglie a un certo punto del nostro colloquio. Il tema è delicato – la città sporca – e raramente il taglio della questione, sui mass-media, tocca uno snodo in realtà decisivo: la maleducazione di chi lorda Como. Men che meno, di solito, l’osservatorio è quello dell’operatore ecologico. Che, invece, questa volta ha diritto di parola e non lesina osservazioni critiche. Sessantacinque anni, pensionato dal 2007, Arcangelo Trombetta ha lavorato per due lustri come “raccoglitore”, conducendo un camion dell’azienda titolare dell’appalto per la nettezza urbana nel Comune di Como. Tutte le mattine, estate e inverno, con la neve o con il vento, alle 6 iniziava il suo servizio. C’è chi se ne ricorda ancora e più di uno, quando era in attività, a Natale o a Pasqua riconosceva il suo attaccamento al lavoro e la sua disponibilità con un pensiero gentile. Signor Trombetta, quali sono le storture peggiori nelle quali si imbatteva? «Il menefreghismo di tanti. C’era chi abbandonava sacchi e sacchetti al di fuori di ogni regola. Sui marciapiedi gettavano di tutto. Mi è capitato di trovare un armadio smontato pezzo per pezzo e lasciato per strada?». Altri casi particolari? «Beh, qualche volta si trovavano frigoriferi buttati in qualche spiazzo, per esempio in viale Varese. Si tratta di rifiuti speciali, sicché il Comune, poi, doveva affrontare costi aggiuntivi per lo smaltimento». Altrove non è così. C’è più senso civico o cos’altro? «Guardi la Svizzera che è vicina a noi. Lì non si getta la carta dal finestrino dell’auto. E lo stesso posso dire per altri Paesi dove sono stato. In Croazia mi è capitato di vedere qualcuno che aveva buttato a terra un mozzicone di sigaretta, doversi chinare e raccoglierlo? È un fatto di cultura. In nazioni diverse dalla nostra, ciò che non si deve fare semplicemente non si fa. Qui si gioca a guardie e ladri: l’unico problema è la paura della multa. In Canton Ticino, per restare vicini, quanto è pubblico è di tutti; nel Comasco e in Italia, in genere, è di nessuno?». Dall’alto della cabina del suo camion ne avrà visti di esempi negativi. «Mi ha sempre colpito il fatto che ben pochi cittadini si prendevano la briga di comporre il numero verde per essere aiutati e preferivano abbandonare selvaggiamente i rifiuti ingombranti di cui volevano disfarsi. E anche l’inosservanza dei divieti di sosta nei giorni e nelle ore in cui era prevista la pulizia delle strade. Il risultato era che la spazzatrice, trovando le auto parcheggiate, non poteva svolgere il suo lavoro». La sua storia è particolare. Lei è stato autista di camion, poi ha lavorato nella nettezza urbana. Com’è andata all’inizio? «Sono stato assunto come stradino, con le classiche scopa e paletta. Dopo pochi giorni sono stato chiamato ad aiutare un collega che aveva problemi fisici e in seguito non ho più abbandonato il camion». Com’era il suo rapporto con il camion? «Le dico subito che il “mio” camion lo usavo solo io. L’ho sempre tenuto in ordine, nella massima pulizia e non ammettevo sciatterie. L’unica volta che è stato utilizzato da qualcun altro, me l’hanno lasciato sporco dopo aver mangiato la pizza. Ho preteso che tornasse lindo, altrimenti mi sarei rifiutato di salire a bordo. E lo stesso facevo quando si trattava di effettuare la manutenzione: sull’automezzo che usavo io esigevo gomme perfette e di alta qualità. E questo, alla lunga, faceva anche risparmiare l’azienda». Com’era il suo rapporto con i cittadini utenti del servizio? «Con quelli che potrei chiamare i miei “clienti” ho sempre avuto un buon rapporto. Se mi facevano presente un’esigenza, cercavo di accontentarli. Ero amico anche dei pazienti dell’ospedale psichiatrico. Quando arrivavo a San Martino, correvano ad aiutarmi ad agganciare i cassoni o a caricare i sacchi. Non ho mai sopportato, invece, l’impazienza di certi automobilisti che suonano il clacson mentre si effettua la raccolta». Con i suoi colleghi, invece, com’è andata? «Bene. Quando era necessario dare tempo in eccedenza rispetto al normale servizio, c’era chi temeva che non gli fosse riconosciuto in termini economici. Io garantivo per loro che avrei segnalato all’azienda lo “straordinario”, ma chiedevo che si finisse di pulire bene un’area, per esempio nei giorni di mercato». Come sono stati i suoi ultimi giorni di lavoro? «Ho insegnato a fare il “giro” ai colleghi più giovani. E ho incontrato alcuni cittadini che mi chiedevano di non smettere». Marco Guggiari

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