Tutte le ere del Festival raccontate da chi se ne intende

Tutte le ere del Festival raccontate da chi se ne intende

La retrospettiva del “canturino” Antonio Silva che presenta dal 1976 il “Premio Tenco” Da trentasei anni presenta il “Premio Tenco”, assegnato dal Club che si richiama al cantautore morto suicida a Sanremo nel 1967. Nella sua vita ha insegnato Storia e Filosofia e anche Lettere per poi fare il preside al Liceo Fermi di Cantù, dal 1989 fino al 2011. Per lui musica e cultura sono inscindibili e adesso che inizia il Festival della Città dei Fiori accetta di parlarne a modo suo, cioè privilegiando la qualità canora e delle sette note. Sessantasei anni, milanese, sposato e con due figli, Antonio Silva è a pieno titolo anche comasco d’adozione. Racconta di tanti big dell’ugola con passione e semplicità, come di amici visti affacciarsi alla ribalta e poi affermarsi in virtù delle loro doti. Se un rammarico traspare, riguarda la natura del Festival di Sanremo e il prevalere in questo evento di logiche diverse rispetto a quelle all’origine della manifestazione. Il “Tenco” però, ogni anno, nel mese di novembre rianima la sua passione perché è riconoscimento alla carriera di artisti che hanno dato apporto significativo alla canzone d’autore nelle sue diverse sezioni, compresa quella dedicata ai giovani talenti. Professore, come nasce la sua passione per la canzone d’autore? «È tutt’uno con la mia famiglia di origine. Mia mamma studiava pianoforte e i miei genitori gestivano l’osteria “Molinetto” alla Bovisa, dove in alcune occasioni si suonava musica dal vivo oppure riprodotta da un vecchio grammofono. Io cambiavo le puntine? Poi mandarono anche me a studiare pianoforte. Una volta presi un gran rimbrotto perché mentre eseguivo la sonata “Al chiaro di luna” di Beethoven, la trasformai in “Guarda che luna” di Fred Buscaglione? A cinquant’anni ho anche realizzato il mio sogno di suonare il sassofono». Come approda al “Premio Tenco”? «Con il gruppo dei “Pan Brumisti” che nel nome si ispirava a un’altra osteria milanese sui Navigli. Si chiamava “Brumista” come il conducente delle carrozze di un tempo. Il grande Amilcare Rambaldi, ideatore del Festival di Sanremo e fondatore del “Club Tenco”, invitò il nostro gruppo a suonare nella Città dei Fiori nel 1975. Andò malissimo; mi avvicinò e disse: “Nessuno ha mai saputo reggere un disastro del genere con una simile faccia tosta. Vieni ad aiutarmi”. L’anno seguente salivo sul palco per presentare il “Premio Tenco”». Veniamo al Festival e partiamo proprio da Luigi Tenco: un incompreso? «Un grande incompreso, un carattere difficile, uno che era infinitamente più avanti degli altri. Era nel gruppo genovese dei vari Lauzi, Paoli, De André, dello stesso Baccini, sebbene ultimo in ordine di tempo». La tragedia di Tenco si consumò la sera della sua eliminazione dal Festival, dopo l’esclusione della sua canzone “Ciao amore ciao”. Lo uccise un colpo di pistola nella camera d’albergo. A lungo si è discusso se si sia davvero suicidato. Lei che idea si è fatto? «Ci sono diverse ipotesi, ma non mi va di parlarne. Dico solo che il suicidio è compatibile con la personalità di Tenco. Tra l’altro “Ciao amore ciao” fu banalizzata come canzone d’amore. Invece era il canto d’addio alla fidanzata di un soldato in partenza per la guerra? Ma nel 1967 questo messaggio non era politicamente accettabile». Torniamo alle origini del Festival di Sanremo. Ci si poteva immaginare che quella prima edizione del 1951, vinta da Nilla Pizzi con “Grazie dei fiori”, avrebbe inaugurato una rassegna destinata a durare tanto a lungo nel tempo? «Sì, nel senso che quella era l’idea dei padri fondatori. Poi il Festival divenne un’altra cosa: una grande operazione di consenso politico, uno spettacolo televisivo con il quale la canzone aveva abbastanza poco a che fare». Quanto ha contato Modugno per il consolidarsi del mito di Sanremo? «Modugno è il personaggio più importante nella storia del festival e tra i più importanti nella storia della musica italiana. Nel ’58 canta “Nel blu dipinto di blu”, nel ’59 “Piove”? Segna il passaggio dalla romanza alla canzone melodica. La sua è anche arte, è Mirò, è Chagall. Poi arriverà la canzone d’autore, un quadro astratto». E la freschezza di Gigliola Cinquetti con il suo “Non ho l’età”? Vinse nel ’64 e aveva solo 16 anni? «Questo fu un altro elemento importante. Arrivavano i “bambini”: Cinquetti, Pavone, Morandi, Nada. Ma la loro freschezza non ci sarebbe stata senza Modugno». Tanti big si sono sfidati per anni tra Sanremo e Canzonissima: Johnny Dorelli, Bobby Solo, Claudio Villa, Gianni Morandi, Iva Zanicchi, Nicola Di Bari, Peppino di Capri, Massimo Ranieri, Milva, gli stessi Celentano, Mina, Battisti, Dalla? Poi alcuni di loro hanno snobbato il Festival. Perché? «Perché a un certo punto il Festival si snatura. La bella canzone nasce altrove: al “Tenco”, a “Canzonissima”, al “Cantagiro”. E Sanremo diventa una vetrina che ad alcuni non interessa più». Da metà alla fine degli anni ’70 il Festival vive una grande crisi. Sembra superato, finito. «In quegli anni non funziona più la formula canzone-fiori-consenso. Nemmeno la politica ne ha più bisogno. Il Festival rinascerà come spettacolo televisivo e sarà un’altra cosa. La canzone diventerà un mezzo per fare audience, ma è un’altra cosa». Invece in anni recenti Sanremo tiene, fa audience. Merito delle canzoni o del fatto che è sempre più spettacolo a tutto tondo, con presentatori versatili e ospiti di prestigio? «Merito del fatto che sono cambiati ospiti, costumi e produzioni. Ma il Festival non è più quello delle origini. Non sono riusciti a riportarlo lì nemmeno la qualità di Sergio Cammariere o le vittorie degli Avion Travel (2000) e Simone Cristicchi (2007)». Che definizione darebbe del Festival di Sanremo? «In tanta diversità di epoche, ha tenuto un fil rouge: è stato una grandissima e importantissima vetrina. Poi, ha ragione il mio amico Enrico Ruggeri che dice: “La sostanza è al Tenco”». Tra i comaschi, in oltre sessant’anni, chi ricorda di più? «Garbo. È venuto al “Tenco” nell’82. Abita a Fenegrò. Mi manda sempre i suoi dischi. Li ascolto e mi piacciono. Poi sono amico di De Sfroos». Chi vorrebbe che vincesse il Festival quest’anno? «Tra i campioni, Simone Cristicchi. Tra i giovani, Paolo Simoni perché è uno dei tanti che ha cantato per me nel disco “Quelle piccole cose”, dedicato ai “Pan Brumisti”. In compenso, ha già vinto il Festival il direttore artistico Mauro Pagani: il più grande musicista oggi esistente nel settore delle canzoni d’autore. Un personaggio di straordinaria umanità: non esita a tirare fuori il violino per accompagnare uno sconosciuto». Marco Guggiari