Il figlio Paolo ricorda quanto il padre ammirasse i Maestri Comacini e l’interesse per la scelta di campo della città in favore del Barbarossa Vent’anni fa, nella notte del 19 dicembre, se ne andava Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano di tutti i tempi, ma la specificazione di quell’àmbito è riduttiva. Rimase vittima di un gravissimo incidente stradale, a Codogno, in provincia di Lodi, dopo aver trascorso una serata al ristorante con amici. Gianni, classe 1919, nella sua vita ebbe un rapporto speciale con il territorio comasco e la ricorrenza di domani è l’occasione per parlarne con il figlio Paolo Brera, a sua volta giornalista, scrittore e traduttore, che vive tra Milano e Nizza. Del padre, tempo fa, scrisse sul “Gazzettino”: “Lo chiamavo Gianni Brera , come tutti, e non mio padre, perché il rapporto di parentela per i lettori è un fatto accessorio. Mi sono un po’ fregato con le mie mani: il Gioann non era solo un personaggio, ma anche l’uomo che mi aveva issato sulle spalle per premiare un goal segnato sulla spiaggia, una delle uniche tre volte che ho giocato a calcio in vita mia. Più volte mi sono rivolto mentalmente a lui per chiedergli scusa, per dirgli che al di là di quel che aveva fatto nella sua vita io gli volevo bene”. Chi non è più giovane e ha bazzicato nelle tribune stampa degli stadi ricorda Brera senior anche a Como. Nelle grandi occasioni, quando la squadra lariana era in serie A, arrivava al Sinigaglia quasi allo scoccare del fischio d’inizio, chiedeva a qualche collega il foglio con le formazioni delle squadre in campo e l’indomani ci si aspettava di trovare le sue immaginifiche descrizioni, come puntualmente accadeva. Perché Gianni Brera non si accontentava di una puntuale cronaca degli eventi; entrava direttamente e da protagonista nelle vicende dello sport, che grazie alla sua penna assumevano toni epici e connotazioni di costume. Tutto nasceva dalla sua straordinaria cultura classica. A lui si devono neologismi oggi di uso comune nel linguaggio del pallone: goleador, contropiede? A lui si deve la definizione di Padania, ben prima di Bossi e della Lega. A lui grandi campioni del football devono i soprannomi che si portavano appresso: l’abatino Gianni Rivera e Gigi Riva, rombo di tuono. Nato a San Zenone Po, nel Pavese, era diventato direttore della “Gazzetta dello Sport” a soli trent’anni, il più giovane in assoluto nella storia della rosea. Scrisse anche per il “Giorno”, il “Giornale”, il “Guerin Sportivo”, che guidò dal 1967 al 1973, e la “Repubblica”. Dottor Brera, suo padre diresse anche uno storico periodico lariano: la rivista “Como”. «Sì, era pubblicata da un editore amico di mio padre (Domenico Discacciati, ndr) e per questo motivo lui compariva come direttore. Ricordo che aveva la massima libertà di scegliere gli argomenti che gli interessavano e che intendeva trattare». Quali erano i punti di contatto di Gianni Brera con il Comasco? «Era molto legato al vostro territorio. Aveva una casa a Bosisio Parini, all’epoca in provincia di Como. Aveva diversi amici comaschi. Mangiava volentieri al Crotto del Misto di Lezzeno, dove gustava il pesce di lago. Aveva punti di riferimento precisi, come il Ghisallo, mitico luogo del ciclismo nazionale. Era molto legato anche alla storia di Como. Ammirava i Maestri Comacini; si appassionava alle vicende che videro contrapporsi alla Lega Lombarda le città di Como e Pavia, alleate invece con l’imperatore Barbarossa contro l’invadenza di Milano». Ricorda a quali comaschi era particolarmente legato? «Era molto amico di Gianni Clerici, tennista, giornalista e scrittore, tra i maggiori esperti di tennis al mondo. Lavorarono assieme a “Repubblica” e prima ancora al “Giorno”. Ogni tanto mio padre incontrava anche l’artista Augusto Concato di Lezzeno, del quale abbiamo alcuni quadri». Di suo padre era proverbiale anche la passione per la tavola e la sua competenza in materia? «Come ho già accennato, amava moltissimo il pesce di lago. Avendo casa a Bosisio Parini, che si affaccia sul Lago di Pusiano, mi sono cimentato anch’io con lui, più volte, nella pesca. Poi facevamo scorpacciate di risotto e pesce persico. Quei piatti erano la fine del mondo». Ricorda altri agganci comaschi di suo padre? «L’imprenditoria. Lui rispettò e ammirò sempre la Lombardia industriale e quella, vostra, della seta e del legno-arredo». Come uomo di cultura, cosa lo attirava al Comasco? «Era davvero impressionato dai Maestri Comacini. L’ho sentito più volte definirli un’organizzazione straordinaria. Quei muratori, scultori e artigiani lavoravano la pietra nei mesi difficili, durante l’inverno. Preparavano pezzi che poi assemblavano». Ricorda qualche episodio particolare della frequentazione comasca? «Durante la guerra mio padre fuggì dalle vostre parti, a Valbrona, di dov’era originaria anche la moglie di Franco, suo fratello nonché mio zio. Dopo l’8 settembre, Gianni lavorò in zona come impiegato. Fu il periodo più infelice della sua vita perché con quel lavoro non poteva esprimere la sua creatività». Un’ultima domanda: com’era il suo rapporto con Gianni Brera? «Dopo i trent’anni, da adulto, ho stabilito un buon rapporto con mio padre. Oggi sono lieto di dire che il suo archivio, da me conservato con fatica per 19 anni e che include anche circa 3mila fotografie, è approdato alla Fondazione Mondadori. Qualcosa, purtroppo, si è perso nel recente rogo della casa di Bosisio Parini; altro nell’alluvione alle Cinque Terre: lì, nella casa di Monterosso, c’erano 200 cartoline elogiative di Germano, suo estimatore, dedicate “al principe del giornalismo”, come lo definiva lui. E per chi desidera leggere tutte le opere di Gianni, segnalo l’editore Book Time e il romanzo “Brambilla e la squaw”, edito da Frassinelli, oltre che “Repubblica” con gli scritti pubblicati su quel giornale». Marco Guggiari
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