Una vita nella “città” Ticosa

Una vita nella “città” Ticosa

Sandro Cima: «Nessuno andava in cassa integrazione. Per tutti c’era sempre qualcosa da fare» Nella grande tintostamperia ha trascorso 33 anni di vita. Messi in fila hanno il senso di ciò che scrive nella presentazione del suo libro consultabile online: “Sono entrato con i pantaloni corti, sono uscito con i capelli bianchi”. Sandro Cima Vivarelli ha ottant’anni e ricordi precisi. Per lui la Ticosa non aveva segreti. Ne parliamo nella sede del “Corriere di Como”, in via Sant’Abbondio. I locali dove oggi si svolge l’attività del nostro giornale e di Etv erano un tempo parte integrante della fabbrica. Inevitabile che l’ospite vesta i panni da cicerone di un’altra epoca: «Questo era il nostro magazzino. Erano stipate tute, camici, inchiostro? Là si trovava l’asciugatoio di stendaggio per i tessuti che dovevano asciugare lentamente?». La mente va al 15 febbraio 1947, sabato mattina. Un ragazzino seduto sulla canna della bicicletta condotta dal papà si apprestava al suo primo giorno di lavoro. Mancavano pochi minuti alle sette. Dentro c’era un po’ di tepore rispetto alla gelida temperatura esterna. Merito delle stufe in terracotta piazzate negli ambienti. Il genitore faceva da apripista; andrà in pensione dopo aver calcato quegli stessi locali per 44 anni. La “Comense”, come si chiamava in origine l’azienda, era già attiva da quattro decenni, anche se il suo nucleo originario, pur con altra denominazione, risaliva addirittura al 1872. Il 1906, però, fu la data di acquisizione da parte della Gillet & Fils. Nel 1956 diventerà Ticosa, la più estesa tintostamperia italiana per conto terzi: 87mila metri quadrati da via Benzi a via Sant’Abbondio, nella parte Nord e da lì a via Albricci, verso San Rocco, nella parte Sud. Tappe successive e più recenti sono scritte sul calendario e tristemente note. Nel 1980 la chiusura; nel 2007 la demolizione; oggi l’area non è nemmeno più un parcheggio: solo montagne russe di detriti, in attesa di sapere quanto amianto c’è e quando finirà la bonifica. Signor Cima, cosa pensa della spianata che vediamo davanti a noi? «La Ticosa era un problema prima, quando stava ancora in piedi, e lo è ancora di più adesso. Se penso all’incognita di cosa sarà domani, piange il cuore. La mia opinione è che il progetto di Multi (la multinazionale olandese che si era aggiudicata la gara per il piano integrato dell’area, ndr) ha spaventato qualcuno. Lì sarebbe nato il nuovo centro di Como». Come pensa che se ne uscirà? «Sarà difficile uscirne. Il terreno doveva essere messo in vendita già bonificato. Non procedere in questo modo è stato un errore della precedente amministrazione comunale». L’area potrebbe essere davvero profondamente inquinata? «Le rispondo con i numeri. Nel corpo C lavoravano 64 tavoli di stampa per ognuno dei tre piani. Ogni dieci minuti c’era un tavolo da lavare. Tonnellate di acqua spazzavano gli scarichi di pigmenti nocivi di cui, inevitabilmente, si impregnava il terreno?». Lei quali lavori ha svolto alla Ticosa? «Ero un impiegato tecnico-amministrativo. Mi sono occupato del rilievo della produzione nei reparti; del controllo delle fatture; dell’ufficio tempi e metodi, in base al cronometraggio messo a punto da un docente universitario francese; della contabilità industriale di fabbrica, in pratica di quanto costava ciò che facevamo». Quanti eravate a lavorare quando entrò? «Nel 1947 eravamo circa 1.200 dipendenti. Pensi che esisteva una portineria per gli operai e una per gli impiegati». Insomma, la Ticosa era davvero una città. «Sì, eravamo autonomi per ogni funzione. Lì dentro esistevano tutti i tipi di lavori. Avevamo meccanici, idraulici, carpentieri, muratori, falegnami, verniciatori, elettricisti? Nessuno andava mai in cassa integrazione. C’era sempre qualcosa da fare per tutti. All’ultimo piano del corpo C avevamo la fotoincisione. Provvedevamo noi anche ai quadri di stampa». Tutto era dunque improntato a grandi dimensioni. «La nostra carbonaia era più grande di una piscina, conteneva fino a 2mila tonnellate di carbone che veniva sollevato con una benna e polverizzato per essere poi spinto con i compressori in un tubo che lo portava alle caldaie. Poi avevamo la “Caliqua”, un impianto che nell’immediato dopoguerra costava 600 milioni di vecchie lire, con due maxi-boiler industriali che scaldavano acqua a ciclo continuo nelle vasche di tintoria da mille, 2mila e 5mila litri». In una comunità così ampia e numerosa non saranno mancate le più diverse problematiche umane. «Certo che no. Quanti matrimoni sono nati in Ticosa? E quante relazioni furtive clandestine? Capitava che rapporti passionali si consumassero nella semioscurità della cosiddetta “mansarda”, un ambiente riscaldato per far asciugare le pezze fresche di stampa, dove a distanza di tempo restava un bel tepore». Sandro Cima è una fonte inesauribile di aneddoti. «C’era chi non si lavava mai, un’operaia in particolare. Le sue colleghe, di tanto in tanto, quando non resistevano più al fetore, la gettavano in una “barca” di acqua tiepida». Nel libro consultabile online (http://quandoeralacomense.wordpress.com/) c’è molto altro. Ci sono i numeri della grande tintostamperia. «Tingevamo 200-230mila metri di tessuto al giorno – spiega l’autore – Come dire, da Como a Bologna?». Ci sono i privilegi di cui godevano i membri della direzione, che ogni mattina potevano usufruire della manutenzione e della pulizia per le proprie auto a cura di alcuni addetti. C’è il rito delle tredicesime, con le “buste” stipate in due cassette rettangolari e qualcuno che, per l’occasione, faceva una corsa a casa a mettersi il vestito buono. C’è il reclutamento dei meridionali alla stazione centrale di Milano, dove arrivava il treno del Sud. Ci sono tutti i passaggi storici della Ticosa, profondamente impastati con la vita della gente. Fino al telex proveniente da Parigi, sede della multinazionale Pricel, delle 18.44 di venerdì 3 ottobre 1980, che annunciava la cessazione dell’attività. Cima scrive: “Eppure, in alcune notti di luna, quando tutto è calmo e tira solo un refolo di vento, ho l’impressione che tutto sia come prima?”. Ma come ha vissuto la demolizione? «Mi è scesa una lacrima sul viso». Marco Guggiari