Sandro Mazzola, l’altra vita a Como

L’ex campione è da sempre legato al Lario. E rischiò anche di giocare con gli azzurri «Era già tutto fatto. Mancava solo la firma sul contratto, e sarei venuto al Como». Inizia così il ricordo, da parte di Sandro Mazzola, di quella settimana della stagione 1961- 1962 in cui, sull’asse Bologna-Milano-Como, si decise il suo destino. L’amarcord è scaturito da una serata a Lipomo, dove il grande campione degli anni ’60 e ’70 ha incontrato dirigenti e giocatori del football lariano. Erano passati diversi mesi da quella domenica di giugno – il 10, esattamente – che lo aveva visto debuttare in serie A in quella che sarebbe passata alla storia come la “partita fantasma”: Juventus- Inter 9-1. Angelo Moratti ed Helenio Herrera erano infuriati per la sentenza del tribunale d’appello che aveva accolto il ricorso juventino contro la vittoria a tavolino assegnata agli interisti nell’incontro di ritorno, al Comunale torinese. Era stata comandata la ripetizione della partita, e l’Inter per protesta aveva deciso di schierare la squadra Primavera. Il cui centravanti era, appunto, Sandro Mazzola. L’unica rete nerazzurra l’avrebbe segnata proprio lui, Sandro, su rigore, verso la fine del match. Dopo quella sfida, però, le porte della serie A sembravano essersi chiuse, per il figlio del grande Valentino. «Mi chiamò un giorno Giulio Cappelli, direttore sportivo del Como, e mi chiese se ero disposto a giocare in maglia azzurra. Risposi di sì», spiega ora. Detto fatto, accordo raggiunto e appuntamento con Angelo Moratti, il presidente, per il giovedì mattina. «Il giorno prima, però, avrei giocato a Bologna nel Campionato Primavera», racconta ancora Mazzola. Contrariamente alle sue abitudini, forse mosso da un presentimento, Moratti si presentò al Dall’Ara: i rapporti con Helenio, in quei giorni, non erano proprio dei migliori, e il presidente voleva essere sicuro di non fare qualche sciocchezza. «A Bologna feci due gol, assist, diverse giocate ad effetto – ricorda Sandro – Sentii il presidente ed Herrera discutere animatamente, negli spogliatoi dopo la partita. Non capii cosa dicessero, ma era chiaro che Moratti si lamentava che l’allenatore argentino facesse giocare troppi giocatori infortunati o fuori forma. “Bisogna sapere rischiare con i giovani. Come quello lì” diceva. Non l’avevo capito, in quel momento, ma “quello lì” ero proprio io». La mattina dopo, lo chiama al telefono un suo compagno di squadra, Dellagiovanna, per avvisarlo che il Mago lo vuole all’allenamento dei “grandi”. «Lo mandai a quel paese. Perché mai avrebbe dovuto avvisarmi lui, e non un dirigente». A Linate – dove si allenavano i nerazzurri in quegli anni – lo aspetta Helenio. «Mi guarda, scuro. Con quella sua parlata mista italiano e spagnolo, mi dice “Domingo si gioca a Palermo. Giocano duro, lì. Te la senti?” Io, naturalmente, dico di sì. “Giocherai davanti, segunda punta. Te la sentì?”. Dico ancora di sì». Finì con il Mago che, durante la passeggiata post-partita sul lungo mare palermitano, abbraccia il giovane Mazzola e gli dice «Domingo c’è il derby, no juegues. Ma la semana dopo, sì, juegues». E il trasferimento al Como saltò. A legare Sandro alla nostra città è anche il ricordo di Gigi Meroni. «Eravamo molto amici – spiega – Il primo incontro fu in occasione delle selezioni per la Rappresentativa lombarda». Si sarebbero ritrovati qualche anno dopo in un Inter-Torino. «Gigi fece irruzione nei nostri spogliatoi – ricorda – Io mi ero appena fatto crescere i baffi. Lui li portava da un po’. Appena li vide, subito si mise a ridere, urlando… “Prima io!”». Dopo i mondiali del 1966 i due andarono insieme a Sanremo. Gigi era un appassionato del casinò, ma la sua compagna non voleva che andasse. «Mi convinse a far sì che sembrasse fossi io a voler andare a giocare. “Gigi non ha giacca e cravatta”, protestò la moglie. “Forse ne ho una io nel bagaglio”, risposi. A quel punto, fu chiaro che era tutto organizzato». Al tavolo della roulette le cose non andarono bene, inizialmente. «Allora dissi, “Giochiamo un’ultima volta, il 7”. Quel numero uscì una volta, poi una seconda, e una terza». A metà degli anni ’60, l’Inter aprì il centro di Appiano Gentile. Allora, però, alla Pinetina c’era solo il terreno per allenarsi. Per dormire, i giocatori andavano al Metropole Suisse a Como. «Herrera ci teneva a stecchetto, a tavola. Allora, alcuni di noi scappavano dall’albergo per andare a prendere panini al salame e vino in un negozio di via Fontana». Il Mago era rigido anche per gli orari. «Vietato alzarsi prima delle 9, la domenica della partita. Ma io volevo andare a Messa. Un giorno sgattaiolai fuori dal’albergo per andare in Duomo, dove incontrai Armando Picchi e Tarcisio Burgnich. Ma ci accorgemmo di un’ombra che ci spiava di nascosto. Era lui, Herrera: ci aveva seguiti. Capì che per noi la Messa era importante. Da quel giorno, ogni sabato alla Pinetina, il parroco di Appiano la celebrava». Franco Cavalleri