Il Concilio raccontato da un prete comasco

Il Concilio raccontato da un prete comasco

Don Titino Levi, parroco emerito di Prestino, rievoca attese e risvolti diocesani del Vaticano II L’esordio è scettico: «Io non sono fatto per le interviste. Vediamoci, ma non ti prometto niente». Nel giorno e all’ora convenuti rimarca un po’ burbero: «Mi sono pentito nel momento stesso in cui ti ho detto sì». La chiosa finale, dopo un’ora buona di colloquio, è una raccomandazione: «Questa, tutt’al più, è stata una chiacchierata?». Chi ascolta rimane incantato dalla qualità e nitidezza dei ricordi e dalla precisione con la quale don Titino Levi cita date lontane nel tempo. Sentirlo parlare del Concilio Vaticano II, nel 50° di quello straordinario evento, apre un mondo. Questo prete, oggi monsignore 90enne, ha inventato la parrocchia di Prestino – dove fu prevosto dal 1964 al 2004 – e ha fatto la storia dello scoutismo cattolico in Diocesi di Como. Il suo studio, nel piccolo appartamento dove vive adesso in città, in via Maurizio Monti, è stipato di libri all’inverosimile. Lascia intendere che il Concilio non fu una trovata improvvisa. Papa Giovanni XXIII lo indisse il 25 gennaio 1959, per aprirlo ufficialmente l’11 ottobre 1962 «ma fu il frutto di un lungo percorso precedente». I riferimenti all’esperienza personale sono precisi e aiutano a comprendere. «Il mio primo incarico, quando divenni prete nel ’46, fu a Tirano. Durante le messe si recitava ancora il rosario. Noi tutti, allora giovani, sentivamo che la liturgia aveva bisogno di fare progressi. Il mio arciprete diceva che era necessario cambiare la lingua (la messa era esclusivamente in latino, ndr), di capire? Io sono nativo di Chiavenna. Fuori dalla chiesa, alla domenica, per venti centesimi si comprava un opuscolo con la messa in latino e in italiano, più un commento. I precursori del Concilio, evidentemente, c’erano già?». Naturalmente non era così dappertutto. «Il vescovo Ferraroni (1913-2007, ndr) diceva che la nostra Diocesi era fatta di isolotti. Fermenti e sensibilità erano diversi, secondo le zone». Don Titino fu incaricato di lavorare nel mondo dello scoutismo. «Lì imparai il senso di avventura, di ricerca, la dimensione comunitaria della liturgia che cercava di superare il formalismo». Spiega il lento e progressivo cammino che portò al Concilio. Ricorda che già i predecessori di Giovanni XXIII ci avevano pensato, ma i tempi in cui vissero Pio XI e Pio XII, con le guerre e i totalitarismi di mezzo, erano assai difficili e rendevano impraticabile la convocazione di tutti i vescovi. «Lo stesso Giovanni XXIII, da buon contadino, non fu precipitoso. Vi giunse dopo una semina. Aveva di fronte una curia non tutta d’accordo su quel passo?». I ricordi del sacerdote comasco si affollano. «Io personalmente sentivo il Concilio come un tempo d’attesa. Un anno prima dell’indizione, nell’ottobre 1961, con gli scout facemmo una marcia di preghiera andando a piedi fino al Santuario della Madonna del Bosco, vicino a Sotto il Monte, paese natale del Papa. Poi ne parlammo con monsignor Ettore Cunial, vicegerente della Diocesi di Roma. Ci disse: “Questo sarà il vero secondo Concilio della storia della Chiesa. Il primo fu quello di Gerusalemme”». Il vescovo di Como che partecipò alla grande assise mondiale era Felice Bonomini (1895-1974). «Rimase sempre a Roma durante i lavori – rammenta don Titino – Fece alcuni interventi scritti. Era un uomo di spirito e di preghiera. Girò per quattro volte la Diocesi in visita pastorale senza metterla giù dura». Un aspetto interessante è il dopo-Concilio in un territorio di periferia. «Erano gli anni in cui a Como si registrava una forte immigrazione dal Sud Italia. Nacquero nuovi quartieri, per lo più disordinatamente, dove l’Istituto autonomo case popolari trovava terreni per costruire alloggi destinati ai nuovi arrivati. La Chiesa di Como si mosse e prese in mano questo problema a Muggiò, a Sagnino, a Prestino. Fu una concomitanza, ma non casuale. La Chiesa conciliare andava incontro alla gente?». Un altro aspetto di grande novità si ebbe nella liturgia, fino ad allora incardinata secondo rigidi canoni formali che concedevano poco al popolo. «Io divenni parroco di Prestino a metà del 1964, quindi a Concilio già inoltrato. Cercammo di recepire il nuovo spirito. Staccai l’altare dal muro. Recepimmo le novità nel canto, nelle preghiere, nella proclamazione della Parola da parte sia dei ragazzi, sia delle ragazze. Cercammo di vivere in atteggiamento comunitario senza stranezze. Fu un crescendo». Anche a livello diocesano, più generale, negli anni che seguirono il Concilio si avvertì il vento del cambiamento. Don Levi cita la figura del vescovo e il nuovo modo di esserlo da parte di monsignor Teresio Ferraroni, prima coadiutore e poi successore di Bonomini. Nella corrente del Vaticano II nacquero i consigli pastorali ispirati da don Virgilio Bianchi, poi direttore del “Settimanale della Diocesi” e della cui cooperativa editrice don Titino Levi fu presidente: «Un giornale colloquiale, sorto all’insegna del senso di amicizia e non di battaglia?», spiega lui. Il colloquio è finito. Sulla scrivania di don Titino c’è un compendio, ormai sfasciato dall’uso, che raccoglie tutti i documenti del Concilio: «L’ho consultato molto con gli scout – dice indicando il tomo – Le nuove generazioni, senza saperlo, sono dentro lo spirito del Concilio, un tesoro che pochi conoscono. Il vescovo Ferraroni avvertiva: “Va citato, non invocato”». Marco Guggiari