Le elezioni Usa spiegate da un’americana

Pamela Callas Di Rosa vive a Carimate dal 1997. Nel Comasco ha fondato due scuole di lingua inglese Pamela Callas Di Rosa è in Italia da vent’anni. Nativa di Bloomfield Hills, nel Michigan, dal 1997 vive a Carimate. Sposata e con due figli maschi, è tra i cinque fondatori dell’International School di Como, originariamente ubicata a Villa Sucota, in città, e ora attiva nella nuova sede di Fino Mornasco. La sua passione per l’insegnamento della lingua inglese è stata inoltre la spinta decisiva per dare vita a un’altra scuola: “The Living Language Room” operativa proprio a Carimate . «Qui – dice, mostrando i locali di piazza Castello nel bel contesto del “Torchio” – lavoro con piccoli gruppi di studenti, formati da non più di quattro persone ciascuno. Questo evita la dispersione. Non ci sono limiti di età e il mio insegnamento risponde a tutte le esigenze. Si basa sull’uso di giochi di ruolo, sulla conversazione, sulla lettura anche se, naturalmente, non mancano i libri di grammatica». Pamela prende da una scatola una carta a caso. È un indovinello, una domanda di cultura la cui risposta porta alla White House. E la chiacchierata che segue riguarda proprio le elezioni per la Casa Bianca che si svolgono oggi per designare chi, tra il democratico Barack Obama e il repubblicano Mitt Romney, sarà il presidente degli Stati Uniti per i prossimi quattro anni. Pamela è laureata in Giornalismo alla University of Colorado di Boulder, tra le Rocky Mountains, e sostiene Obama. Qual è il clima che si respira negli States durante la marcia di avvicinamento al voto? «C’è grande interesse diffuso tra la popolazione perché la nostra economia ha tuttora problemi. Anche da noi preoccupa la disoccupazione. Un’altra questione che appassiona è la riforma sanitaria. E, sullo sfondo, rimane l’incubo del terrorismo». Noi italiani siamo spesso stupiti per la bassa affluenza alle urne che si registra in America anche se, almeno tendenzialmente, ci stiamo adeguando come dimostrano le recenti elezioni regionali in Sicilia. Nel 2008 ci fu il record storico di votanti, comunque non più del 65%. I pochi elettori che partecipano al voto sono segno di indifferenza per la scelta finale? «Io credo che questo fenomeno riguardi la composizione sociale. Negli strati più colti della popolazione, la cosiddetta “middle-class”, il voto è massiccio. Molto meno invece a livello di altri ceti. Così, almeno, avviene nel Michigan, il mio Stato». I dibattiti in tv in occasione dell’Election Day sembrano molto più decisivi di quanto avvenga in Italia fin dai tempi del primo faccia a faccia tra Kennedy e Nixon nel 1960. «Questo avviene per una serie di motivi. Prima di tutto, gli americani si informano attraverso la tv più che leggendo i giornali, anche se non va trascurato Internet. Poi, nelle nostre scuole sono previsti i cosiddetti “Student Council” e “Debate Club”, metodi didattici pensati affinché gli studenti imparino a discutere in gruppo e a risolvere i problemi. Esiste quindi una tradizione di dibattito. Io non credo però che gli elettori cambino idea in base all’andamento di un dibattito televisivo. Questo può avvenire soltanto tra gli indecisi». Quanto pesano, oltre ai grandi temi, gli argomenti della vita quotidiana? «Sono importanti. Penso alle tasse: la mia famiglia dice che sono arrivate al 42%, ma in Italia incidono di più? Penso alla casa: tanti l’hanno persa a causa delle speculazioni immobiliari?». Quanto conta per gli americani l’appeal dei candidati? «È molto importante. Prendiamo Ronald Reagan. Era stato un attore e sapeva come presentarsi e parlare, anche se non aveva esperienza politica e vinse. Anche Bill Clinton va bene. Obama ha grande appeal: è un bell’uomo, sa come sorridere, sa come combattere. È questione di feeling». Per gli italiani è curioso che voi americani possiate, secondo i casi, votare di volta in volta per un candidato democratico oppure repubblicano. «Si chiama flessibilità. Voi italiani siete invece più “prescribed”, come posso dire? Più rigidi. Mangiate sempre alla stessa ora, scegliete un lavoro per sempre, una casa definitivamente? Noi siamo più elastici», Perché ha tanto peso la sincerità dei candidati alla Casa Bianca? «Questa qualità è legata soprattutto al sesso e alla vita personale. Negli Stati Uniti si è molto puritani, soprattutto i repubblicani che sono sostenuti da gruppi religiosi forti e influenti. E per ottenere consenso occorre fare molta attenzione a questi aspetti. So che in Europa non è così». Gli americani sono considerati, in generale, più semplici di noi italiani. In questa valutazione, però, c’è spesso un’accezione un po’ negativa, una sfumatura che vi attribuisce un eccesso di ingenuità. Lei condivide? «Credo che in realtà gli americani siano più “free”, più liberi. Gli italiani preferiscono seguire più che essere leader. Noi cerchiamo di crescere per provare a fare tutto, anche se sembriamo un po’ ingenui e magari sciocchi. Ma siamo semplici perché non abbiamo vergogna. Spesso gli italiani privilegiano l’apparenza. Capita che chi non ha i soldi per acquistare una borsa griffata, cerchi disperatamente un venditore abusivo per averla comunque a poco prezzo. Da voi c’è più omologazione». Marco Guggiari