I miei due anni in Afghanistan

I miei due anni in Afghanistan

Venerdì 07 Settembre 2012 Storie – La comasca Daniela Scordìa, esperta di logistica, racconta l’esperienza in prima linea nelle basi militari dell’esercito americano Da Olgiate Comasco alle montagne dell’aspro Hindukusch Come si lavora in una delle zone più “calde” del conflitto Due anni in mezzo al nulla, in una base militare nel deserto dell’Hindukusch, a lavorare con l’esercito americano in Afghanistan. È l’incredibile esperienza della comasca Daniela Scordìa, classe 1972, che anni fa, lasciando la tranquilla routine di Olgiate Comasco, è volata, per lavoro, a South Beach, sulle spiagge vacanziere della Florida, per poi approdare in una delle più pericolose zone di guerra “assoldata” da una compagnia americana di contractor civili. «È stata un’esperienza umana impagabile – racconta Daniela Scordìa – oltre che un’avventura professionale unica». Quali sono i passi che l’hanno portata Oltreoceano? «A dire il vero, dopo il liceo linguistico avrei voluto seguire la mia passione per la letteratura, ma alla fine ha prevalso il pragmatismo e ho scelto una facoltà che mi avrebbe garantito un lavoro. Ho preso una laurea in Economia e Commercio alla Cattolica di Milano e quando mi hanno proposto un’esperienza di lavoro negli Stati Uniti, non ho esitato un attimo. Ho sempre amato viaggiare, relazionarmi con persone fuori dagli schemi. Sono partita nel 2000, destinazione Florida. Ho iniziato come meeting planner in una società non profit, ho girato l’America in lungo e in largo, è stato faticoso agli inizi ma con gli anni ho ottenuto enormi soddisfazioni». Poi la chiamata “in guerra”. Come ci è arrivata? «A un certo punto ho sentito il bisogno di cambiare. Nell’azienda per cui lavoravo ho conosciuto quello che poi sarebbe diventato mio marito. Lavora in una grossa società di contractor, la Fluor, che fornisce servizi civili ai militari della coalizione, mi ha chiesto se ero interessata a unirmi a loro. Ho sentito il sapore della sfida, e mi sono detta: “Perché no?”. Ho mandato il mio curriculum e mi hanno assunto. Prima dell’Afghanistan, però, c’è stato il background check con l’Fbi». Background check? «Al principio del 2009 mi hanno convocata a Greenville nel North Carolina, dove mi hanno letteralmente vivisezionata. Ho dovuto raccontare tutto quello che avevo fatto nei sette anni precedenti, le persone che avevo conosciuto, i viaggi che avevo fatto, insomma hanno aperto un “file” su di me per assicurarsi di potersi fidare e verificare se fossi pronta, sia fisicamente che psicologicamente, ad affrontare la guerra. Ho superato tutti i test e dopo due mesi è arrivato il pass speciale che permette di avere accesso alle basi americane». La prima destinazione qual è stata? «Nel giugno del 2009 sono stata destinata alla base di Bagram a circa 60 chilometri da Kabul. Mi occupavo di controllo qualità, dalla mensa ai posti letto, dalle forniture idrauliche al mantenimento delle strade. Poi mi hanno mandato a Sharana, sul confine con il Pakistan, una delle zone più a rischio. Una base molto estesa con 3.500 militari». L’impatto come è stato? «Beh, abbastanza scioccante. Mi hanno piazzato in una tenda militare con altre 15 ragazze, la maggior parte americane e qualcuna dei Balcani. Sveglia alle 4 e mezzo e corsa a fare la doccia per evitare la coda, pochi minuti per lavarsi (l’acqua è rigidamente razionata) e poi, dalle 6, al lavoro fino alle 19 e oltre, sette giorni su sette». Si è mai sentita in pericolo di vita? «Sì, è capitato diverse volte che i colpi di mortaio esplodessero nelle vicinanze. Anche se non temevo tanto i missili, perché un sistema di controllo capillare – una sorta di occhio dirigibile – controlla tutta la base e i droni la sorvolano continuamente; avevo paura degli attentati terroristici: un infiltrato che riuscisse a entrare e si facesse saltare in aria. Sapevo bene i rischi che correvo. Sette miei colleghi hanno perso la vita». Si trovava in Afghanistan quando è stato ucciso Bin Laden: quali sono state le reazioni? «C’è stata una grande sorpresa. Tutti si chiedevano: “E ora, che faremo?”». I militari mandati in missione sono molto giovani, come li ha trovati? Spesso li si accusa di essere degli “invasati”. «No, io di invasati non ne ho conosciuti. Anzi, la cosa che più mi ha colpito è il loro amore per la patria, sono davvero disposti a morire per un ideale. Sono giovani, è vero, ma sono tutti volontari, preparatissimi; ovviamente nella grande massa ci sono anche quelli che non ce la fanno. I loro turni durano sei mesi e una volta a casa possono esserci problemi, come la sindrome da stress post traumatico. Al loro ritorno trovano un team di psicologi che li affianca nell’affrontare la normale vita quotidiana». Quali sono le sensazioni che si porta addosso al ricordo di questa esperienza? «Il freddo tremendo di notte, il caldo asfissiante di giorno, la sensazione di paura a salire di corsa su un C-130. E poi polvere, polvere, polvere sempre e ovunque, e il colore del paesaggio uguale dappertutto, l’odore delle fogne a cielo aperto. Ma porto con me soprattutto i momenti belli, le feste improvvisate, poter regalare un sorriso ai militari nella pausa caffè, quando ti raccontano dei loro affetti, delle loro fidanzate, dei figli. Un sorriso in più poteva fare la differenza nella quotidianità di un soldato». Si è mai sentita a disagio, in quanto donna? «Per gli americani non è affatto strano. A capo della sezione della Fluor che opera per l’esercito c’è una donna e le donne nell’esercito sono una normale consuetudine. Ben diverso l’atteggiamento degli afghani delle forze locali. Per loro era inconcepibile che fossi lì, che portassi i pantaloni e che fossi bionda! Dobbiamo pensare che c’è un analfabetismo totale, sia maschile che femminile. Come in tutti i Paesi del mondo la discriminazione verso le donne è innanzitutto una mancanza culturale». Che cosa ha fatto appena tornata a casa? «Una doccia lunghissima nella mia casa a South Beach. Poi finalmente, dopo due anni, ho potuto truccarmi e mettermi un bel paio di scarpe con i tacchi!». Cosa vorrebbe dire ai giovani e alle giovani italiane? «Di non fidarsi degli stereotipi della mentalità occidentale e di non rinunciare ai sogni. Fare esperienze all’estero è importante, ma quando sento parlare male del mio Paese mi arrabbio, siamo quelli che hanno inventato i prodotti migliori in tutti i campi! Mi dispiace molto che in Italia non si riesca a venire valorizzati per il proprio merito». Katia Trinca Colonel