Marzorati testimone a Monaco ’72

Marzorati testimone a  Monaco ’72

Martedì 04 Settembre 2012 Quarant’anni fa l’assalto alle Olimpiadi Il campione canturino di basket ricorda il blitz dei terroristi nella palazzina israeliana. «Eravamo in emergenza e sul tetto del nostro edificio si erano piazzati tiratori scelti» Quarant’anni fa, la notte tra il 4 e il 5 settembre 1972, iniziava l’assalto dei terroristi palestinesi alla palazzina degli atleti israeliani che partecipavano alle Olimpiadi di Monaco, in Germania. Quel tragico evento fu vissuto da vicino da uno dei più grandi protagonisti di tutti i tempi dello sport comasco, il canturino Pierluigi Marzorati, convocato per la prima volta ai Giochi con la Nazionale di pallacanestro. L’edificio dov’era alloggiato si trovava proprio di fronte a quello presa di mira. Ne parliamo nello studio professionale ubicato nel centro della città del mobile, dove Marzorati, che è anche presidente del Comitato regionale del Coni, oggi lavora come ingegnere progettista di impianti civili e sportivi. «Non avevo ancora vent’anni – esordisce – infatti li avrei compiuti il 12 settembre (il giorno dopo la chiusura di quelle Olimpiadi, ndr). Tutto intorno a me era meraviglioso. Ero affascinato da ciò che mi accadeva. Eravamo in totale libertà, in spirito di fratellanza e amicizia, in un clima indescrivibile. C’erano 10mila atleti e la maggior parte di questi era soddisfatta per il traguardo tagliato: essere lì, anche senza poter sperare in una medaglia. Ci scambiavamo i distintivi. Il villaggio olimpico, immerso nel verde, era come un Eden. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito, di essere in una sorta di paradiso terrestre». Quella notte otto palestinesi scavalcarono la rete di recinzione del villaggio e alle 4.30 fecero irruzione nella palazzina numero 31. Uccisero subito un allenatore e un pesista israeliani che avevano opposto resistenza. Un lottatore e altri diciotto atleti riuscirono a fuggire. In mano al commando rimasero però nove ostaggi. I fedayn di Settembre Nero chiesero la liberazione di 234 loro compagni detenuti a Tel Aviv e di Andrea Baader e Ulrike Meinhof, i capi della Rote Armee Fraktion, organizzazione terroristica tedesca. A un primo ultimatum ne seguirono altri, con la minaccia di uccidere un prigioniero per ogni ora di ritardo. Come vi accorgeste di ciò che stava accadendo? «La mattina del 5 settembre venne il massaggiatore Crispi, che noi chiamavamo “Mister”. Fu lui a dirci che era accaduta una cosa sconvolgente, che c’erano morti e ostaggi a pochi passi da noi. Ci invitò a lasciare rapidamente il villaggio perché eravamo in piena emergenza e sul tetto delle nostra palazzina si erano piazzati tiratori scelti. Noi vedevamo l’edificio occupato, ma non riuscivamo a scorgere altro. I sequestratori erano barricati all’interno con i loro ostaggi. Chiamammo casa per rassicurare le nostre famiglie». Come si svolse quella giornata drammatica e cruciale? «Lasciammo il villaggio a bordo del pullman per andare ad allenarci e non potemmo più rientrare. Mangiammo in un ristorante in centro. Dopo il secondo allenamento pomeridiano ci dissero che le trattative tra forze dell’ordine tedesche e fedayn erano chiuse e che sequestratori e ostaggi erano diretti all’aeroporto. Così, di sera potemmo ritornare ai nostri alloggi». Il peggio, però, doveva ancora venire. I terroristi avevano chiesto di lasciare la Germania alla volta del Cairo. Alle dieci di sera un pullman li condusse fino a due elicotteri che decollarono verso l’aeroporto di Furstenfeldbruck, a un’ottantina di chilometri da Monaco di Baviera. Sulla pista c’erano tiratori scelti tedeschi. In otto minuti avvenne il tragico epilogo: morirono cinque terroristi su otto, il pilota di uno degli elicotteri, un poliziotto tedesco e tutti i nove ostaggi israeliani. Tre fedayn furono arrestati. All’una e trenta di notte del 6 settembre tutto era finito. Come viveste quel finale? «Ci ritrovammo sotto una cappa di disagio pesante. Era chiaro che eravamo nel mezzo di una tragedia, sebbene questa non ci avesse toccato direttamente. Ormai nulla aveva più senso. La grande, meravigliosa manifestazione alla quale eravamo arrivati aveva perso qualsiasi logica. In noi però c’era la consapevolezza che non andare avanti avrebbe significato dare ragione ai terroristi». Ai funerali delle vittime di quella tragedia parteciparono 80mila persone. Le Olimpiadi si fermarono solo per quel giorno. Come proseguiste le gare? «Il clima tra di noi e tutt’intorno era profondamente cambiato. Eravamo tutti presi da quella situazione. Io penso che forse poteva finire diversamente. Si sarebbero potute condurre trattative più lunghe. Invece si optò una soluzione sommaria, che produsse quel risultato. Prevalse il timore di un’impronta negativa sull’organizzazione dei Giochi». Le Olimpiadi di Monaco si erano aperte il 26 agosto. Protagonista assoluto fu il nuotatore statunitense Mark Spitz, che vinse sette medaglie d’oro. L’Italia in vasca sognava con Novella Calligaris, una ragazzina non ancora 18enne che ci regalò le prime medaglie nel nuoto. E nell’atletica leggera, nei 200 metri piani, un giovane Pietro Mennea si aggiudicava il bronzo. Pierluigi Marzorati giocò la finale di basket per il terzo e quarto posto. L’8 settembre la Nazionale azzurra fu sconfitta da Cuba per un solo punto (66-65). «Noi pensavamo di farcela – ricorda – Ce la giocavamo dopo aver perso con gli Usa in semifinale. Un’infrazione non rilevata ai danni di Serafini ci fece perdere il possesso di palla a pochi secondi dalla fine. Fu così che subimmo la sconfitta per un punto». Quell’edizione delle Olimpiadi segnò anche la prima sconfitta dal 1936, data dell’introduzione del basket nei giochi a cinque cerchi, degli Stati Uniti, battuti in finalissima dall’Unione Sovietica (50-51). Anche in quel caso ci furono errori e gli americani considerarono sempre un furto quel risultato. Marzorati ebbe modo di rifarsi, partecipando ad altre tre Olimpiadi: a Montreal, a Mosca, dove disputò la finalissima vinta dalla Jugoslavia e si aggiudicò la medaglia d’argento, e a Los Angeles. Dai primi canestri nella squadra dell’oratorio San Michele di Cantù al record, tuttora suo, di presenze in Nazionale (278), ne ha fatta di strada. Come furono le edizioni successive dei giochi? «Risentirono dei fatti di Monaco. C’erano controlli più rigidi agli ingressi, più preparazione negli incaricati della sicurezza. Un clima diverso da quello della mia prima esperienza». Israele volle vendicare i suoi morti e il suo servizio segreto, il Mossad, diede la caccia a tutti responsabili della strage. Steven Spielberg ne trasse il film “Munich” (2005). Marco Guggiari