Guarneri, dal Como all’Italia campione d’Europa

Martedì 12 Giugno 2012 I ricordi lariani del giocatore che vinse tutto con l’Inter di Helenio Herrera Quattro volte campioni del mondo, ma un solo titolo europeo. La Nazionale azzurra di calcio ha vinto per la prima e, finora, unica volta il torneo continentale nel 1968. Tra i protagonisti di quel successo c’era anche Aristide Guarneri, ex giocatore del Como, passato poi all’Inter, la squadra che negli anni ’60 ha conquistato tutti i trofei, in Italia e all’estero. Classe 1938, sposato e padre di tre figli, Guarneri vive a Cremona, la sua città, dove si dedica agli amati nipotini, svolgendo però tuttora il ruolo di osservatore di giovani talenti per conto della società nerazzurra a cui è rimasto sempre legato. Mai espulso in carriera, era soprannominato lo “stopper gentiluomo”, anche se nel Como iniziò come terzino. Veniva da dignitose, ma povere origini. Il padre, Giuseppe, scultore e pittore, negli anni della guerra riusciva a sfamare la famiglia andando a caccia di fagiani e lepri. E lui, Aristide, a quattordici anni vendeva verdura assieme alla sorella da una bancarella. Sul Lario giunse nel 1957, proveniente dal Codogno. Vi rimase per una sola stagione. Da qui spiccò subito il volo verso Milano dove divenne una colonna dell’Inter del “mago” Helenio Herrera. Nel giugno del ’67 passò al Bologna, poi al Napoli. Chiuse la carriera nella “sua” Cremonese. In Nazionale disputò 21 partite; l’esordio avvenne con il Brasile di un certo Pelè. Nella chiacchierata che segue parliamo delle sue maglie azzurre, in Nazionale e con il Como. Ogni tanto Guarneri completa il suo pensiero con una risata cristallina che dice più delle parole. Com’era il clima che si respirava agli Europei del ’68? L’Italia veniva dalla vergogna nazionale dell’eliminazione con la Corea ai Mondiali d’Inghilterra di due anni prima? «Il ’66 era passato, avevamo metabolizzato quella brutta avventura. La prima partita che giocammo dopo la Corea fu con l’Urss a San Siro. In squadra noi dell’Inter eravamo in otto, una rarità perché nella Nazionale, storicamente, non c’è mai stato un “blocco” dell’Inter e, tra l’altro, non capisco perché, visto che abbiamo vissuto stagioni straordinarie. Comunque, con l’Urss vincemmo e proprio grazie a un mio gol, l’unico che segnai con l’Italia, ma al grande portiere Lev Yashin, una leggenda». Eravate fiduciosi anche riguardo alla conquista finale del titolo? «No, non immaginavamo tanto. Però eravamo confortati dal fatto che l’Italia era la nazione organizzatrice del campionato europeo e quindi avevamo il vantaggio di giocare in casa». Qual era il suo stato d’animo? Lei aveva appena lasciato l’Inter per il Bologna, altra grande squadra in quegli anni. «All’inizio è stata un po’ dura, perché non avevo cambiato solo la squadra, ma anche allenatore, tutto? Dovevo adattarmi. Però a Bologna conoscevo tanti compagni della Nazionale: Pascutti, Perani, Janich, Fogli». Prima della doppia finale con la Jugoslavia (1-1 e partita ripetuta con vittoria azzurra per 2-1) ci fu un pari senza reti tra Italia e Urss. Per l’accesso alla finale si fece testa o croce e il capitano azzurro, Giacinto Facchetti, fu fortunato… «I capitani delle due squadre si erano ritirati nello spogliatoio con l’arbitro per il sorteggio. Io pensavo: vediamo chi esce per primo dal sottopassaggio? Il sorteggio ci favorì e fu di buon auspicio. Fummo fortunati perché durante la partita eravamo rimasti in dieci in quanto Rivera si era infortunato e all’epoca non si potevano fare sostituzioni. E l’Urss era una Nazionale molto forte. Noi però, sebbene ridotti in dieci, avevamo avuto più occasioni di loro». Come vede l’Italia in questo campionato europeo? «I giorni che l’hanno preceduto sono stati in salita, ma di solito a noi le cose negative portano bene. È stato così tante volte, anche in Messico quando l’Italia arrivò in finale, iniziò con Anastasi convocato ma infortunato e al suo posto arrivò Boninsegna che non sfigurò di certo. Ma allora i nostri calciatori erano più bravi perché avevano meno stranieri davanti». Agli Europei del ’68, probabilmente, ci sarebbe stato anche il comasco Gigi Meroni, se non fosse stato investito e ucciso da un’auto pochi mesi prima. Lei che ricordi ha di Meroni? «Fuori era una persona stravagante, ma in campo un grande professionista. Agli Europei sarebbe stato certamente convocato. Ci eravamo allenati assieme con la Nazionale. In un’amichevole con l’Argentina a Torino, Meroni e Mazzola giocarono un tempo ciascuno. Meroni era l’idolo dei tifosi granata, mentre Mazzola fu fischiato e ci rimase male…». Tra i professionisti lei ha iniziato in serie B con il Como nel 1957-’58. Che ricordi ha di quell’esperienza? «Ricordo che sembravo un anatroccolo, perché avevo 19 anni e non ero mai stato fuori da Cremona. Adesso a 17 anni si va in giro per il mondo, ma allora anche la Primavera non si spostava dalla propria città. Passando da Como, in un anno solare feci un salto incredibile: nel 1957 giocavo in Promozione con il Codogno, in settembre ero al Como in serie B e a giugno ’58 passavo all’Inter». A Como lei rimase solo un anno, ma fece in tempo a farsi apprezzare. A chi deve la sua valorizzazione? «Prima di tutto all’allenatore, l’argentino Hugo Lamanna, che mi voleva bene. Poi all’allenatore in seconda, Giovanni Zanollo. Io, per parte mia, volevo imparare. Mi fermavo anche dopo l’allenamento. Lamanna era molto paterno, era un burbero che spiegava le cose». So che il suo esordio, giovanissimo, è dovuto alla severità di Lamanna riguardo alla vita privata dei calciatori? «Sì, all’epoca solo due o tre di noi avevano l’automobile e non certo io. Dopo la preparazione precedente al campionato, svolta a Como, iniziarono le amichevoli. Il mister disse: “Prima della partita voglio le patenti negli spogliatoi”, perché non voleva che ci si distraesse girando per il lago. Uno dei miei compagni ha fatto finta di dimenticarla e per punizione fu escluso. Così con il Genoa, che militava in serie A, giocai io nel ruolo di terzino sinistro. Secondo Lamanna andai bene e così giocai anche in seguito». Cosa ricorda della Como di allora? «Era una città nella quale si stava bene, turistica, anche se la mia vita era limitata al campo e al ristorante, dalla signora Palma, una trattoria a Sant’Agostino. Qualche volta ci invitava a mangiare a casa sua il magazziniere. Aveva due figlie che simpatizzavano per noi. Io andavo pochissimo a casa, alla domenica venivano i miei. Dietro lo stadio c’erano le barche e gli idrovolanti. Ricordo che avevamo un ottimo presidente, Francesco Ambrosoli, imprenditore dolciario nel settore del miele e delle caramelle». Ogni tanto torna a Como? «Qualche volta, come osservatore, allo stadio. Ne approfitto per fare due passi fino ai portici in centro e al Metropole Suisse in piazza Cavour, dove alloggiavamo con l’Inter prima che la Pinetina fosse attrezzata. Qualche volta, sempre con l’Inter, andavamo anche all’hotel Villa Flori. E al Regina Olga di Cernobbio». Marco Guggiari