Lo scienziato di Rovellasca che inchiodò la zanzara anofele

Biologo – Benefattore dell’umanità Giovanni Battista Grassi trovò la soluzione all’enigma ma non ebbe il Premio Nobel La vittima più famosa, in Italia, fu Fausto Coppi. Il “campionissimo” di ciclismo morì di malaria il 2 gennaio 1960. Aveva appena quarant’anni e aveva contratto il morbo pochi giorni prima mentre si trovava in Africa, nell’Alto Volta, attuale Burkina Faso. I medici sbagliarono diagnosi. Gli somministrarono antibiotici e cortisonici; Raphael Géminiani, amico e compagno di gare di Coppi che era con lui nel Continente Nero, in Francia fu curato con il chinino e guarì. Domani, come ogni anno, si celebra la Giornata Mondiale contro la malaria, che causa tuttora 500 milioni di malati all’anno e più di un milione di morti, minacciando oltre il 40% della popolazione mondiale. Chi scoprì la chiave del flagello è un comasco. Oltre cento anni fa, il 18 agosto 1898, il professor Giovanni Battista Grassi scrisse una cartolina da Bellano alla figlia dodicenne Isabella: «Ho fatto un viaggetto di tre giorni alla ricerca di zanzare e spero di aver trovato quella che produce la malaria». E così fu, effettivamente. A lui, nativo di Rovellasca si deve il merito, che altri poi impropriamente si attribuirono, di aver svelato un mistero in apparenza inespugnabile. Grassi studiò e selezionò zanzare in tutta Italia. Accertò che solo il genere Anopheles trasmetteva i parassiti responsabili del grave morbo. E concluse sicuro: «L’anofele vive in tutti i luoghi dove c’è la malaria; non esiste malaria senza anofele». Questo semplice sillogismo aveva alle spalle anni di fatiche e di disagi del grande studioso. «Ho fatto lunghe peregrinazioni in terza classe o a piedi, col viatico di pane e cacio – disse ringraziando chi in seguito aveva voluto celebrare degnamente i suoi settant’anni – Ho frequentato le più misere trattorie e ho alloggiato nelle più umili locande». Alla fine, i suoi sforzi furono coronati. Scartò le ipotesi, non dimostrate, che andavano per la maggiore riguardo la causa della malaria: miasmi di paludi, acque stagnanti, caratteristiche del terreno, insetti… Con l’aiuto dell’inseparabile microscopio riuscì ad accertare che solo nel corpo delle zanzare anofele, crepuscolari e notturne, potevano vivere i plasmodi, specie di protozoi annidati nelle ghiandole salivari delle femmine, che procuravano effetti devastanti all’organismo umano: febbri ripetute, distruzione dei globuli rossi, aggressione a fegato e milza. I numeri della terribile malattia, a quell’epoca, erano eloquenti: ogni anno milioni di morti nel mondo. In Italia, nel 1881, ne erano colpite 63 province su 69. Grassi dimostrò la sua scoperta con una sperimentazione clinica a Roma, il 28 settembre 1898. La fama del professore si diffuse ovunque, «facendomi nello stesso tempo assaggiare amarissime amarezze», precisò lui. Il Premio Nobel per la fondamentale soluzione di quel drammatico enigma fu infatti assegnato, nel 1902, a un altro scienziato: l’inglese Ronald Ross, che in realtà era arrivato ben dopo il biologo italiano. A quest’ultimo solo in seguito furono riconosciuti i dovuti onori. Il re e la regina d’Italia lo invitarono a pranzo nella tenuta di Casa Savoia a San Rossore. Divenne senatore a vita per meriti scientifici e, quando morì, al Pincio di Roma fu innalzata una stele in sua memoria. Dopo la grande scoperta, Giovanni Battista Grassi, che amava definirsi il detective della malaria, si gettò a capofitto nell’attività di prevenzione e cura. Fece i primi esperimenti nella Piana di Capaccio (Salerno) e ad Olevano (Mortara). Poi si dedicò anima e corpo alla popolazione romana di Fiumicino, letteralmente infestata dalle zanzare anofele. Nel 1918 questa zona dell’Agro romano era abitata da 700 persone dedite a pesca e pastorizia, alle quali si aggiungevano 200 nomadi che lavoravano come aratori e mietitori. Tra giugno e ottobre di quell’anno furono accertati 506 casi di malaria. Il benefattore comasco adottò contromisure ad ampio raggio. Si battè per abolire le capanne, dove più facilmente si annidavano le zanzare. Tentò di sradicare l’abitudine di fare alloggiare nelle stalle chi lavorava i campi. Insistette perché fossero applicate reticelle protettive a tutte le aperture delle abitazioni. Andò in ogni casa a distribuire personalmente cioccolatini al chinino ai bambini. Il direttore generale della Sanità Pubblica gli darà atto di questa intensa missione, dopo aver visitato il suo dispensario antimalarico e il laboratorio di ricerche installati a Fiumicino e dopo aver visto come procedevano i lavori di piccola bonifica. «Egli conosceva tutta quella povera gente – dirà di Grassi – e tutti, uomini, donne, vecchi e fanciulli, chiamava per nome. Egli mi apparve come un simbolo di bontà, come un messo di carità per quei lavoratori semplici e buoni». Anche i risultati erano dalla sua parte. Nel giugno-ottobre del 1919 i casi di malaria scesero a 174 e, se nel 1918 le persone colpite dal morbo erano il 54% della popolazione, quattro anni più tardi erano soltanto l’11,5%. Alla fine, la malattia fu completamente debellata. Grassi fu segnato per sempre da quella straordinaria esperienza, al punto da voler essere seppellito proprio in quella terra. Giovanni Battista aveva sviluppato e coltivato passione per la natura e per le ricerche fin da bambino, battendo le campagne in cerca di insetti, mosche, pulci e parassiti, che poi esaminava accuratamente. In seguito, per studiare la vita delle api mise perfino due arnie popolate nella sua cameretta del Collegio Ghisleri, a Pavia. «L’osservazione – era il suo motto – è la madre di tante scoperte e il saper osservare non è meno importante del saper ragionare». Era nato a Rovellasca il 27 marzo 1854, secondo di quattro figli di una famiglia benestante. Como gli intitolò una via e un padiglione dell’ospedale Sant’Anna, costruito in via Napoleona. Marco Guggiari