Beppe e Mariola Mantero una vita insieme

Martedì 03 Aprile 2012 I ricordi di Mariola Frontini, moglie di Beppe Mantero Il 6 aprile di un anno fa, dopo una vita lunghissima dedicata alla famiglia, all’età di 98 anni moriva Mariola Frontini, moglie di Beppe Mantero, l’imprenditore serico che rese grande l’azienda comasca di via Volta. Il colloquio che segue avvenne nel 1995, durante un piacevole pomeriggio trascorso a Villa al Sole, la bella casa dove la signora Mantero abitava a Como, tra via Crispi e largo Radice. Nelle intenzioni quell’incontro doveva preludere a un libro che poi non ci fu. Ne uscì invece un inedito affresco familiare. Mariola Frontini, voce ferma e decisa, una sigaretta dopo l’altra, mise subito le cose in chiaro: «Scriva maritata Mantero. Io odio la parola vedova». Quanto alle note biografiche precisò: «Comasca. Verace», aggiungendo però che nelle sue vene scorreva un 25% di sangue tedesco, per via del nonno materno. «Carattere latino, ma organizzazione teutonica», concluse poi perentoria. Mariola Frontini conobbe Giuseppe Mantero, detto Beppe, nel 1928. La loro unione fu allietata dalla nascita di otto figli, sette maschi e una femmina. «Ho avuto tanta felicità accanto a quell’uomo – raccontò quel pomeriggio di tanti anni fa – Mio marito diceva sempre: “Dal Padreterno ho avuto tutto, ma mi deve dare ancora una cosa: voglio morire prima di te”. L’ha accontentato anche in questo». A questo punto è opportuno fare un salto indietro nel tempo. Classe 1905, Beppe era il secondo dei tre figli di Riccardo Mantero che si era trasferito a Como nel 1895 da Novi Ligure, dove si produceva seta grezza. Figlio di una merciaia, Riccardo era giunto sul Lario per avviare un’attività di trasformazione del filato. Nel 1902 aprì un deposito di stoffe in via Mentana. Nella piccola azienda lavoravano lui, la moglie Lina, comasca, e un fattorino che arrancava trasportando a spalle casse di tessuti su e giù dal terzo piano. Riccardo, intraprendente e sparagnino, conservava carta e corda dei pacchi, che poi riutilizzava. Nel 1942 inaugurò il primo stabilimento: il “Burgatt” di Menaggio. A lui si deve anche il palazzo di via Volta, in origine usato come abitazione e in seguito sede degli uffici Mantero. Il figlio Beppe gli subentrò e nel 1960 inaugurò la fabbrica-modello di Grandate, sorta in un prato dove pascolavano le pecore. Inventò Ideacomo. Ebbe la nomina a Cavaliere del Lavoro. Morì nel 1982. Signora Mantero, suo marito cosa pensava di Como? «Riteneva che gli industriali dovessero occuparsene maggiormente. Aggiungeva che però non avevano tempo di farlo e così la lasciavano agli estranei. E Beppe diceva: “Sbagliamo noi”». Immagino che i momenti liberi e di svago per suo marito fossero pochi… «No, niente, mai. Non abbiamo mai condotto vita di società. Lui faceva la spola via Volta-via Crispi, andata e ritorno. Ogni tanto diceva: “Sono passato da una strada e c’era un negozio, ma non so nemmeno che strada sia”. Per cinquant’anni ha fatto così. Poi arrivava qui e aveva una bella famiglia di cui interessarsi? Mi diceva: “La tua industria pesa più della mia”. Però andavamo bene così». Che cos’era per suo marito la moda, ne dava qualche definizione particolare? «Non credeva agli affari conclusi attraverso la moda. Diceva che erano rischiosi e che le sartorie erano debiti. Oggi è tutto cambiato e si deve lavorare anche così, ma un tempo mio marito andava con le valigie e campionari…». Quindi viaggiava molto… «Anche troppo. Iniziava in agosto e andava avanti fino a marzo-aprile, quando si fermava in ditta per preparare i campionari». Per lei la moda cos’è? «Mi piace seguire la moda, anche se vivendo in famiglia non ho bisogno di andare in grandi sartorie e spendere sette-otto milioni di lire per un vestito. Per la vita che ho fatto io è sempre andata bene la sarta che accetta di usare la stoffa che le porti tu. Per quattordici anni consecutivi ho sempre avuto una gravidanza o un allattamento. C’era poco da andare in sartoria?». Cos’è invece per lei il fascino in una persona? «Tanto sentimento, passione per qualcosa anche al di fuori del lavoro – per esempio la musica o la letteratura – e saper distinguere tra lavoro e svago». Cos’era per suo marito la seta? «Lavoro. E poi la gioia di aver fatto funzionare i telai. Per lui era inconcepibile che ce ne fosse uno fermo. A Menaggio, chiamava il direttore dello stabilimento e chiedeva se i telai andavano tutti. Se ce n’era uno fermo, diceva subito in dialetto: “Cosa mettiamo su?”». Che effetto le faceva vedere in giro eleganza creata in casa sua, da suo marito? «Quando Beppe vedeva tante donne vestite male si chiedeva: “Ma dove vanno a finire le belle stoffe che faccio io?”. E aggiungeva: “Voglio conoscere l’impiegato che è riuscito a vendere una simile porcheria a quella signora, perché è pur anche bravo?”. Per lui la soddisfazione veniva prima del guadagno. Era vendere le sue pezze, “girarne” tante». Può indicare i tratti essenziali della personalità di suo marito? «Una volontà di ferro. Il suo motto era: “Non vincere senza lottare”. E quando è nato uno dei miei tanti figli, mi ha regalato una cartella con quella scritta in caratteri d’oro. Lui ha sempre lottato. Diceva: “Guarda Mariola, io nella vita sono stato fortunato. Ho avuto intelligenza, voglia di lavorare e salute”. E come si è ammalato, è morto. Il lavoro per lui era l’hobby della vita, non ne aveva altri. Non ha mai brontolato una volta perché doveva andare a lavorare». Quindi suo marito era un ottimista? «Sì, fuori dal suo lavoro sapeva essere un uomo allegro. Quando i nostri figli erano bambini era capace di raccontare favole che inventava al momento. Poi, quando non sapeva più come proseguire, se la cavava dicendo: “Prossima puntata la prossima settimana”. Sapeva rinunciare ai figli ma mano che crescevano per mandarli all’estero a completare la loro formazione». Qual era il suo stile di lavoro? «Semplicemente, immergersi completamente nel lavoro. In azienda gli erano tutti affezionati. Se un dipendente aveva un problema, mio marito lo chiamava nel suo studio e se ne occupava. Era molto paterno. Infatti i sindacati lo accusavano di paternalismo, ma poi riconoscevano: “Potessimo trattare con tutti gli industriali come avviene con lei”. Sapeva ascoltarli e riconoscere la loro importanza». Come nascevano le idee migliori? «Mio marito stava anche un’ora o due senza parlare, perché pensava. Le idee gli venivano così. Ne aveva anche troppe. Diceva che avrebbe avuto bisogno di qualcuno vicino per assorbirle perché poi non aveva il tempo e la pazienza di portarle tutte a compimento. Era un vulcano». Aveva seguito le orme del padre da giovanissimo? «All’età di diciassette anni era partito per l’Inghilterra per imparare la lingua e dopo pochi mesi iniziò a lavorare. Aveva un piccolo studio a Londra, uno a Parigi e un altro a Lione. A vent’anni si può dire che fosse indipendente, anche se collaborava sempre con suo padre. È stato all’estero per cinque anni». Quando ha avuto in mano il “pallino” della Mantero? «L’ha sempre un po’ avuto perché il papà si occupava solo dell’acquisto della seta. Beppe doveva seguire tutto il resto: aveva i campionari, i clienti. Il bastone del comando, nel vero senso della parola, però l’ha preso quando è morto suo padre, nel 1951». Quali valori aveva nel lavoro? «Non scendere mai a compromessi. Su questo era inflessibile. E lo ha raccomandato anche ai figli: “Ricordate, qualunque difficoltà incontriate, non dovrete mai scendere a compromessi”». Teneva in particolare considerazione le opinioni di qualcuno? «Ascoltava. Se poi c’era da correggere o dire di no, non si lasciava mai condizionare. Però ascoltava». E teneva in considerazione le opinioni di qualcuno in particolare, per esempio quelle della signora Mariola Mantero? «Mah, lui esaltandomi anche troppo diceva: “Quando non ti do ascolto, sbaglio”. Perché sosteneva: “Tu hai il buon senso che appartiene solo a voi donne”. Lo diceva anche davanti alle mie nuore e ai miei figli. Io mi trovavo quasi a disagio. In realtà, non gli davo quasi mai consigli». Suo marito riusciva a scindere il lavoro dalla famiglia? «Sì, quando entrava dalla porta lasciava fuori i problemi del lavoro. Con i figli, di cui mi sono occupata sempre io facendoli studiare in casa fino all’età di dieci anni, al momento delle scuole superiori è intervenuto lui. Li seguiva ed era severissimo». Il successo pesa? «Sì, perché è necessario mantenere sempre le motivazioni per le quali hai avuto successo: il comportamento, la mentalità, l’educazione. È una traiettoria da seguire. Se tutto è venuto con onestà, però, non è poi una grande fatica. A mio marito non pesava più di tanto perché ci era arrivato dalla gavetta, lavorando, senza cambiare il suo stile di vita». Era scomodo il ruolo di first lady di un personaggio come Beppe Mantero? «No, assolutamente no. Io sapevo stare al mio posto, lui riconosceva il mio compito perché mi diceva: “Quando torno a casa alla sera io ho finito; tu vai avanti, di giorno e di notte”. Ma io lo facevo con gioia. Abbiamo avuto otto figli perché li abbiamo voluti, non perché sono arrivati per errore? Il mio mondo era qui. E anche con le mie nuore vado d’accordo. Anagraficamente sono suocera, ma non ho mai esercitato quel ruolo. Non sono invadente?». Come passavate le vostre serate in casa? «Prima che ci fosse la tv, ascoltavamo la radio. Poi ci raccontavamo la nostra giornata. Mio marito si coricava presto, verso le 22.30. Non tornava mai prima delle sette di sera. Anche quando nasceva qualche figlio, spesso arrivava che era già venuto alla luce, perché diceva che doveva finire di scrivere una lettera…». Marco Guggiari