«Anche a Como ci sono colletti bianchi con il costume di scena della mafia»

«Anche a Como ci sono colletti bianchi con il costume di scena della mafia»

Martedì 20 Marzo 2012 Parla Alessandro De Lisi, direttore del Centro San Francesco Alessandro De Lisi, quarant’anni, celibe, palermitano, vive a Sotto il Monte, il paese di Papa Giovanni XXIII. «Ma cerco casa proprio a Como», dice. Parla di mafia come un fiume in piena. Il suo è sacro furore fin da quando rimase fulminato sulla via di Antonino Caponnetto, padre del pool antimafia del capoluogo siciliano e capo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i magistrati uccisi con le bombe nel 1992. Dall’Isola alla Lombardia, il percorso è spiegabile via Cisl, a cui De Lisi è iscritto: «Io sono stato chiamato qui per volontà del sindacato. Battista Villa, Claudio Ramaccini e Raffaele Bonanni hanno investito risorse per contrastare il ricatto criminale nel lavoro». È nato in questo modo l’impegno nel “Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco”, di cui De Lisi è direttore: «L’abbiamo chiamato così – sorride – perché tutti i santi aiutano?». Occasione della nostra chiacchierata è la Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime di tutte le mafie, che si celebra il 21 marzo. Come nasce la sua sensibilità nella lotta alla criminalità organizzata? «Vengo da un’antica famiglia siciliana che non ha mai piegato la testa ai feudatari. Il primo ricordo che ho è quello di me, bambino, portato a festeggiare il Primo Maggio a Portella delle Ginestre. In quel luogo, teatro della strage del 1947, è nata la radice del mio dissenso. Lì, dove sono stati ammazzati in tanti mentre facevano festa, c’è la certezza dell’abominio umano». C’è qualcuno che, al di fuori della sua famiglia, ha avuto su di lei un’influenza decisiva? «Sono figlio culturale di Nino Caponnetto. Grazie a lui, in tanti facemmo scelta di combattere il crimine organizzato. Il suo motto, che faccio mio, era: “Tutti uno”». Che cosa significa? «Significa che occorre un pool sociale di antimafia e non soltanto investigativo. Un pool ideale del quale facciano parte scuola, sindacati, università? Servono tanti incubatori in tante città diverse». C’è un momento particolarmente significativo nel suo percorso personale? «Il giorno dell’omicidio a Palermo di Libero Grassi, un imprenditore che disse no al pizzo, non si rassegnò. Scrisse una lettera aperta diretta al suo estorsore sul “Giornale di Sicilia”. Pagò con la vita». Lei non ha paura per l’attività che svolge? «Ho tanti amici, siamo una squadra. Ricevo molte minacce in forme diverse. Magari non mi mandano messaggi portati da uomini con la coppola, ma a volte mi viene suggerito di pensare alla carriera… So di dover combattere una guerra lunga. Uno strumento usato dalla mafia è la delegittimazione. Forse potranno colpire me, ma per averla vinta dovranno colpire tutti quelli che sono impegnati nel Centro San Francesco. Io so di condurre una lotta contro il tempo e contro l’indifferenza». Come fa i conti con questa situazione? «Sono un collezionista di cartine geografiche. È un hobby che aiuta, perché quando mi sento isolato e solo guardo una mappa e questo mi fa pensare alla vita delle persone che abitano, putacaso, a Papete. E mi chiedo se anche loro hanno la sfortuna di crescere con Vito Ciancimino sindaco com’è capitato a me». Cosa invece le dà forza nel suo lavoro? «Ho passato gli ultimi vent’anni con l’acceleratore a manetta, giorno e notte, per il timore di non farcela. Mi dà una forte carica incontrare i ragazzi a scuola. A loro dico sempre che la lezione più importante è quella di Giovanni Falcone: non stancarsi mai della conoscenza, e non solo sui libri». Il problema delle mafie, anche se molti stentano a crederlo, riguarda da vicino anche Como. «Anche a Como ci sono colletti bianchi che vestono il costume di scena della mafia in Lombardia. Como può farcela, ha radici imprenditoriali sane che guardano al Nord, verso l’Europa. Ha pure radici culturali sane, ma è sotto ricatto del sistema criminale che, venuto dal Sud, qui ha trovato alleanze. Bisogna dire basta all’ipocrisia che non vede un atto intimidatorio in una ruspa bruciata in un cantiere. Quanti suicidi sono indotti in Lombardia dalla crisi e dal racket delle mafie?». Cosa si può fare? «Bisogna combattere la mafia attraverso il credito, che è un mondo non trasparente. A vent’anni dalle stragi di Capaci e di Palermo, chiedo ai comaschi di adottare una strategia condivisa di proposte concrete per distruggere, un dito alla volta, la stretta di mano che lega la ’ndrangheta a poteri economici occulti. I suoi centri nervosi sono i soldi, il consenso elettorale che può elargirli e, soprattutto, il consenso culturale. Occorre distruggere questi nodi. Nel Comasco un’impresa su tre è “usurata” a causa delle discriminazioni che subisce nell’accesso al credito». Quali sono le proposte concrete alle quali si riferisce? «Prendiamoci subito il 35% del capitale confiscato alla mafia e il 21% di quello recuperato con la lotta all’evasione fiscale e mettiamolo negli ammortizzatori sociali, usiamolo per i disoccupati di cinquant’anni, per le donne, per l’accesso dei giovani al lavoro? Riprendiamoci la liquidità che ci è stata tolta? Certo, servono leggi adeguate in tal senso. Un’ultima cosa: dall’imminente campagna elettorale comasca deve restare fuori il clientelismo». Un messaggio di speranza per Como? «Como deve decidere cosa fare da grande. Negli ultimi vent’anni ha subito tre trasformazioni industriali? Deve decidere se accontentarsi di essere una Disneyland con turisti “mordi e fuggi”, oppure diventare la città del rinascimento sociale? Tutto questo passa anche dalla lotta alle mafie. Como ha le forze sane necessarie per sviluppare un protocollo di legalità. Può riscoprire la responsabilità sociale nel governo del territorio». Marco Guggiari