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Quando la diva Doris Duranti si sposò clandestina a Campione

Nei ricordi del prefetto Giuseppe Salerno la Como tra gli anni ’30 e ’50 La traccia segnata dai ricordi della gente comune è in grado sempre di disegnare i contorni della storia. Negli “Annali” della vita quotidiana si scorgono in controluce i piccoli e i grandi eventi le cui date diventano, in seguito, il percorso obbligato di chi la storia deve scriverla per mestiere. La finestra del Prefetto, libro intervista che Antonio De Vito ha pubblicato 26 anni fa dopo aver registrato le memorie di Giuseppe Salerno, è insieme testimonianza e documento. Racconta la vita professionale di un funzionario dello Stato – Salerno, appunto – e nello stesso tempo rievoca il clima, le ansie, le aspettative, le paure di un Paese nel passaggio dal regime fascista alla guerra, alla rinascita repubblicana. A distanza di un quarto di secolo, il libro di De Vito torna in libreria per i tipi della Miraggi Edizioni, mantenendo intatto il suo interesse. I ricordi di Salerno, infatti, si sono nel frattempo sedimentati. L’Italia è ulteriormente cambiata e il vivido racconto dell’ex prefetto di Torino, morto nel 1996 all’età di 85 anni, ha assunto il profilo di una testimonianza “alta”. Capace di innescare riflessioni sul significato di alcuni passaggi determinanti della nostra storia recente: uno su tutti, gli scontri che nel 1960 infiammarono le piazze del Paese fino a produrre la durissima repressione del ministro Mario Scelba. Como, anni ’30 Giuseppe Salerno, napoletano, classe 1911, si laureò giovanissimo – nel 1930 – in Giurisprudenza all’Università Federico II. Vincitore del concorso dirigenziale del ministero dell’Interno, iniziò la sua carriera ad Ancona e poi a Piacenza. Giunse a Como alla fine del 1936 con l’incarico di segretario dell’ufficio di gabinetto. Nella città lariana, dove si sposò, rimase fino all’inizio degli anni ’50, quando dopo aver trovato casa a Milano smise di fare il pendolare sui treni delle Nord. Giocando sulla sua adesione ai Guf (l’organizzazione degli studenti fascisti) riuscì a non iscriversi al Partito unico fino al 1943. La sua adesione tardiva gli costò una condanna a morte in contumacia, pronunciata da un Tribunale della Repubblica Sociale ma mai eseguita. Dopo l’8 settembre, infatti, Salerno era fuggito in Svizzera e nella Confederazione rimase 2 anni, internato in un campo profughi vicino Berna. «Arrivai in Svizzera il 17 settembre ’43 – racconta nel libro – Mi internarono, assieme a un migliaio di altri ufficiali e fui per molto tempo a Murren, sulle Alpi Bernesi, ai piedi dello Jungfrau. Contemporaneamente, fermarono a Como mia moglie, mettendola agli arresti. La minacciavano: “o suo marito rientra, o va in carcere”. Quando ne venni informato, pensai: “Se torno mi mettono al muro, mia moglie sarà certo più contenta di andare lei in prigione”». “Ti mando una lettera” Da funzionario prefettizio Salerno riuscì anche a far espatriare molti cittadini di religione ebraica, colpiti nel settembre del ’39 dalle leggi razziali. «La gente se ne fregava del fascismo – si legge ancora nel libro – Anche i funzionari di carriera, gli impiegati dell’amministrazione. Eravamo in massima parte meridionali, portati alla moderazione. Basti pensare a che cosa accadde per gli ebrei stranieri. Per quanto mi consta, a Como riuscirono a salvarsi, nessuno di loro rimase in Italia. Io mi ero messo d’accordo con il commissario di pubblica sicurezza che comandava la zona di confine a Chiasso. Gli telefonavo: “Ti mando una lettera”. Voleva dire: “Arriva un ebreo, fallo uscire”. Pochi di loro (parlo degli stranieri, ma era uguale anche per gli italiani) finirono in carcere. Ad alcuni si suggeriva di tagliuzzarsi un po’, succhiare il sangue e sputarlo: facendosi passare per tubercolitici, sarebbero stati rimessi in libertà». I tedeschi giunsero a Como pochi giorni dopo l’8 settembre. Prima di riparare in Svizzera, Salerno riuscì a incenerire gli elenchi dell’Anagrafe con i nomi degli ebrei lariani. Il rogo dei registri «Applicai alla lettera una circolare di Mussolini, emanata dopo lo sbarco inglese. Diceva che nel caso di avvicinamento del nemico bisognava distruggere tutti i documenti segreti. Con i tedeschi alle porte, chi era il nemico? Allora feci un bel falò di tutti gli elenchi degli ebrei e relative pratiche. Ai comuni più importanti, per esempio Lecco, avevo già dato disposizioni affinché dagli archivi fossero tolte tutte le schede con annotazioni sulla razza. Molti ebrei nel Comasco si salvarono in quel modo». Il matrimonio della diva Dopo la guerra, Salerno è nominato commissario prefettizio a Campione d’Italia. Anche allora l’enclave in terra svizzera era un mondo a parte. Con regole e consuetudini diverse dal resto del Paese. Uno degli episodi più divertenti ricordati nel libro riguarda il matrimonio clandestino di Doris Duranti, una delle dive del cinema italiano dell’epoca. Amante di Alessandro Pavolini, passata alla storia per il seno nudo mostrato in Carmela, film del 1942 diretto da Flavio Calzavara, la Duranti era riuscita a rifugiarsi a Lugano prima della fine della Rsi. Le autorità elvetiche l’avevano però arrestata e in carcere l’attrice aveva tentato il suicidio tagliandosi le vene. «La Duranti conosceva il proprietario di un cinema di Chiasso e pensò di sposarlo, così da acquistare la cittadinanza elvetica. Però occorreva che si sposasse civilmente, quindi doveva venire in municipio, rischiando di essere arrestata. Lei pensò di cavarsela con il solo matrimonio religioso, che non poteva essere celebrato in Svizzera, e venne a Campione. Si era fatta chiudere nel portabagagli di un’automobile per sfuggire alla vigilanza. Passò sotto il naso delle guardie svizzere che non se ne accorsero e si fece sposare dal parroco che aveva ottenuto l’autorizzazione del vescovo di Lugano». Dario Campione

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