«Io, comasco sopravvissuto al tragico incidente di Monza»

«Io, comasco sopravvissuto al tragico incidente di Monza»

Carlo Pedraglio fu ferito nella più grave sciagura di Formula Uno «Addosso avevo il sangue delle persone ferite e dei morti, che un attimo prima, ignari di tutto, assistevano alla gara accanto a me…». Il notaio comasco Carlo Pedraglio, all’epoca 22 enne, era tra gli spettatori del Gran Premio di Formula Uno a Monza quando, esattamente cinquant’anni fa, si verificò il più grave incidente mai avvenuto in un circuito automobilistico di categoria. Vi morirono 14 spettatori, più il pilota tedesco della Ferrari Wolfgang von Trips. Pedraglio accetta di raccontare la tragica vicenda che ricorda tuttora in modo nitido. Nello studio dove lavora, in centro città campeggia un ritratto del padre, anch’egli notaio, e sono allineate collezioni di libri antichi di valore. Tra questi un introvabile “Regolamento del notariato” di Napoleone I, un’edizione commentata delle Pandette di Giustiniano che risale al 1846, la raccolta di fascicoli della “Lex” fin dal 1910. Dottor Pedraglio, come mai era a Monza quel 10 settembre 1961? «Ero appassionato di automobilismo. Ero lì con mio fratello Antonio e con un amico comasco, Daniele Fontana». Nell’incidente, causato da un contatto tra la Lotus del pilota britannico Jim Clark e la Ferrari, quest’ultima, lanciata alla velocità di 200 chilometri orari, “decollò” verso un terrapieno dov’erano assiepati gli spettatori, protetti soltanto da una rete. Le vetture di Clark e di von Trips rimasero agganciate. Alcune vittime furono falciate da Clark, che uscì indenne. La zona era quella della curva parabolica “Vedano”. Nella strage lo stesso pilota tedesco morì sul colpo non appena il bolide che conduceva ripiombò sul cemento. Cosa ricorda di quel momento? «La gara era appena partita. Dopo un giro, per vedere meglio noi ci spostammo verso la parte finale del rettilineo, in cima al terrapieno. Sentimmo arrivare le auto e fu subito il finimondo». Cosa sentì, cosa vide? «Ci fu un grande botto, un’esplosione violenta. A causa del rombo dei motori, però, la folla non si accorse subito della gravità dei fatti. Fummo immersi in una grande nuvola di polvere, che poi piano piano si diradò. C’era gente per terra, mio fratello era rotolato verso la parte opposta del terrapieno, in direzione del parco. Fontana era ferito. Lo portammo a braccia verso la tenda della Croce Rossa. L’ambulanza ci condusse al pronto soccorso dell’ospedale di Monza». Anche lei, secondo i resoconti dell’epoca, era ferito. «Feci in tempo ad avvisare casa mia e fui ricoverato per un trauma addominale causato dalle persone che mi finirono addosso. Trascorsi una notte un po’ agitata, perché non mi facevano bere nemmeno un po’ d’acqua. Rimasi in ospedale un paio di giorni, in tempo per vedere scene allucinanti. Nelle prime ore passai da una sala dov’erano allineati tutti i feriti. Fu impressionante…». C’è un ricordo particolare tra i tanti? «Una cosa curiosa, ma che dà il senso della potenza di quell’impatto: tra i capelli avevo frammenti di vernice rossa». Come cambiò la sua vita dopo quell’episodio? «Mi ritengo fortunato, sono ancora qui. Ma quel giorno non cambiò la mia vita. Ero giovane e in quella stagione dell’esistenza non si vedono i pericoli, o si sottovalutano. Prima e dopo corsi altri rischi. Certo, a Como si sparse la notizia che io ero morto. Qualcuno andò anche in lacrime dai miei genitori…». Ci furono strascichi? «Tempo dopo fui chiamato a testimoniare nell’ambito dell’inchiesta che doveva ricostruire esattamente l’accaduto. Andai in Pretura, che all’epoca a Como aveva sede nella piazzetta che fa da rientranza a via Odescalchi». Tornò mai in un autodromo? «Certo che sì. Sono piuttosto cocciuto e volli assistere ancora a una gara automobilistica, proprio a Monza. Per me era un modo per vincere il timore di tornare lì. Assistetti alla corsa dal parterre davanti alla tribuna. In pista c’era anche Lorenzo Baldini, il pilota italiano che poi morì tragicamente alla guida di una Ferrari durante il Gran Premio di Monaco del 1967». Conserva qualcosa di quella giornata a Monza? «Sì, a casa, da qualche parte, devo avere la copertina di una rivista dell’epoca, credo un numero dell’“Europeo”. Nella fotografia che si riferisce all’incidente c’è, a terra, un cappello di feltro. Era mio, lo indossavo per ripararmi dal sole di quella caldissima giornata di settembre. È rimasto lì». Fuori dallo studio del notaio Pedraglio, dietro l’angolo, in piazza Volta, passeggia felice una coppia di turisti. Sulle loro teste spiccano due cappellini della Ferrari. La “rossa” resta una passione inossidabile nel tempo, un mito che resiste alimentato dai successi, dai piloti, dal popolo degli appassionati. Nonostante i lutti di cui è costellato il gran “circo” della Formula Uno. Marco Guggiari