«La mia maglia gialla, un regalo alla carriera»

«La mia maglia gialla, un regalo alla carriera»

Alberto Elli, comasco, per quattro giorni in vetta al Tour de France nell’edizione del 2000 Per nove anni è stato l’ultimo italiano ad aver vestito la maglia gialla. Al Tour de France, Alberto Elli, nato a Giussano ma residente a lungo nel Comasco, a Lurago d’Erba, ha partecipato per undici edizioni consecutive, dal 1990 al 2000, giungendo sempre a Parigi. Miglior piazzamento, il 7° posto finale nella classifica generale. Ciclista con i fiocchi, per quattro volte ha fatto parte della Nazionale italiana che ha disputato i Mondiali su strada. La sua è una passione che parte da lontano e affonda le radici nella famiglia d’origine: nel padre e nello zio, dirigente di una società sportiva. «Quando mi hanno regalato una bicicletta da corsa – dice – ho toccato il cielo con un dito. A 13 anni ero esordiente». La bici resta la sua vita e poco importa che nel frattempo un altro italiano, Rinaldo Nocentini. abbia conquistato il primato, anch’esso provvisorio, nella grande corsa a tappe transalpina, ricalcando le sue orme. Va da sè che parlare con Alberto Elli della mitica “Grande Boucle”, la cui prossima edizione, la numero 98, partirà sabato, è un dovere e un piacere. Elli, lei ha indossato la maglia gialla. È un privilegio capitato a pochi, e ancora meno agli italiani. Che effetto fa? «Essere in cima alla classifica è un’emozione indescrivibile. Ripaga di tante amarezze passate, di vittorie sfuggite per un soffio o di situazioni drammatiche vissute. La maglia gialla conquistata a 36 anni per me è stato un regalo alla carriera. Una specie di premio». Le è stato di consolazione il fatto di aver ceduto il simbolo del primato all’americano Lance Armstrong, poi trionfatore a Parigi e in seguito recordman per numero di vittorie al Tour? «Sapevo che il mio primato era di passaggio. Non mi ero fatto illusioni particolari. Sono sempre stato molto realista nella vita. Ero consapevole di poter perdere la maglia subito o, comunque, di lì a poco. Certamente, il fatto che sia passata ad Armstrong ha dato ancora più valore alla mia impresa. Il simbolo del primato è stato preso da un campione che ha poi trionfato sugli Champs-Élysées e che ha vinto sette Tour consecutivi. Questo ha ridotto al minimo il mio dispiacere». Non sono passati molti anni, visto che il suo exploit avvenne nel 2000, ma le chiedo ugualmente se in questo arco di tempo ci sono state situazioni in cui il ricordo di quel primato ha inciso, in un modo o nell’altro, nella sua vita. «Ho vissuto quel momento come doveva essere vissuto. In seguito non ho avuto rimpianti. In me c’è la consapevolezza che per un momento sono stato al culmine per notorietà. Poi la vita continua. Io non sto tanto a pensare al passato e ai ricordi. Provvedono i giornali, la tv, gli amici… Certo, ho appeso in casa la foto di quel giorno. Ogni tanto ne trovo altre». Cosa le resta di quelli che, in realtà, sono stati quattro giorni? «Come dicevo, sono stati solo un bel regalo, un premio alla mia tenacia. Sono sempre stato caparbio, ho sempre cercato il meglio. Non mi sono mai accontentato. Il ciclismo è uno sport duro e mi ha formato. L’impronta poi resta nella vita di tutti i giorni, anche quando non si corre più». Soltanto sei italiani hanno vinto uno o più Tour de France. Due volte a testa Bartali, Bottecchia e Coppi, una sola Nencini, Gimondi e Pantani. È una corsa davvero massacrante? Qual è la differenza rispetto al Giro d’Italia? «La differenza sostanziale è che rispetto al Giro ci sono tutti i migliori. La qualità, quindi, è più alta. In più c’è la durezza. Il Tour si corre quando è caldo. Non c’è mai un momento di recupero. Poi c’è la mentalità con cui viene affrontato dai protagonisti. È seguito da tutti come una festa nazionale. Per strada ti acclamano come un eroe. Ha un pizzico di fascino in più rispetto al Giro d’Italia». La vita e la carriera dei ciclisti comaschi sono segnate più dal Tour che dal Giro. Penso a lei, ma anche a Fabio Casartelli, morto nella caduta lungo la discesa del Colle di Portet-d’Aspet nel 1995. Lei c’era. Che ricordo ha di Casartelli? «Sì, c’ero. Fabio era mio amico e compagno di allenamenti. È stata una vera tragedia, in tutti i sensi. Mi ha lasciato un vuoto dentro. Fabio era una persona molto sincera, di cui ci si poteva fidare. Era schietto, allegro, simpatico, pieno di vita. Il giorno prima eravamo in albergo assieme. Si parlava di quello che avremmo fatto dopo il Tour…». Un altro comasco, Marco Lietti, vinse una tappa davanti al grande Lemond. Il giorno dopo, per evitare di travolgere un bambino, finì contro un camion, andò in coma e rimase per sei mesi all’ospedale. Rammenta quella sfortunata vicenda? «Sì, Marco era mio compagno di squadra. Stavamo facendo riscaldamento prima della tappa. Poi è successo ciò che sappiamo. Improvvisamente si è ritrovato sull’asfalto? Il nostro sport è così. Queste sono cose che possono succedere. Le vedo e le vivo tuttora come direttore sportivo». Marco Guggiari