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«Il nostro trasferimento nel monoblocco: come entrare in un ospedale americano»

Giampiero Sironi, all’epoca dirigente del Sant’Anna: «Vivevamo un grande momento di espansione» «L’errore più grave è stato non prevedere fin dall’inizio la piazzola d’atterraggio dell’elisoccorso direttamente sul tetto del nuovo ospedale. È lo stesso errore fatto quando fu costruito il monoblocco, ma allora, se non altro, l’eliambulanza era di là da venire». Giampiero Sironi, 75 anni ben portati, 54 dei quali trascorsi nella sanità, equamente divisi tra Sant’Anna e Nostra Famiglia, dice la sua sull’imminente trasloco a San Fermo. L’occasione è buona per ricordare come avvenne il trasferimento, tutto interno all’area di via Napoleona, dai vecchi padiglioni al monoblocco costruito in quattro anni, dal 1966 al 1970. All’epoca, Sironi era dirigente del Sant’Anna ed è quindi un testimone privilegiato di quel delicato passaggio. Come avvenne quel trasloco? «Non è stato un vero e proprio trasloco. Dove adesso c’è il pronto soccorso sorgeva una chiesetta, che fu abbattuta proprio per edificare i sette piani del monoblocco, ma nell’area era già presente un ospedale, sia pure dislocato in diversi edifici». Che ricordi ha di quel giorno, quale aria si respirava? «A noi tutti, che lavoravamo lì, sembrava di entrare in un ospedale americano. Desideravamo fare presto. Grazie a quello sviluppo arrivavano Ostetricia e Ginecologia, fino ad allora ubicate in via Paoli. Si attivava Pneumologia. Si ampliava Chirurgia plastica, con quella straordinaria specialista che era la professoressa Graziella Lupo… Avevamo la straordinaria sensazione di vivere un momento di crescita e di espansione. Avevamo un grande presidente, l’avvocato Diodato Lanni, che era a capo dell’associazione di tutti gli ospedali italiani. I suoi contatti erano importanti. Ottenne tutti i finanziamenti dallo Stato. Ricordo l’impressione di un 26 luglio, festa di Sant’Anna, con l’esposizione della quadreria dei benefattori proprio nel nuovissimo monoblocco, ancora senza infissi». Qual era la preoccupazione maggiore della vigilia? «Il timore che non funzionasse subito tutto bene, che non si riuscisse ad “aprire” tutti i letti. Preoccupava la messa a punto dell’apparato di condizionamento per le nuove sale operatorie: all’epoca, per le anestesie si usavano ancora i gas». Non vi fu alcun disguido? «Ve ne furono, ma percepiti solo da chi lavorava nell’ospedale, non dai pazienti. Sul monoblocco lavorò molto il nostro ufficio tecnico e questo fu un grande vantaggio». In quante tempo vi siete assestati definitivamente? «Un mese, non di più. Tutti avevano voglia di fare, si sentivano coinvolti e questo era chiaramente percepibile. C’era un grande capo infermiere, anche di stazza: Carlo Molteni. Lui e i suoi colleghi portavano in spalla mobili e strumenti…». Che impressione ha del trasloco che ci aspetta? «Mi auguro che vada tutto bene. Allora non c’era tutta la strumentazione elettronica di oggi. Quanto al resto, c’è stato l’errore di non prevedere la piazzola dell’elisoccorso. Non parliamo del pasticcio anagrafe. In treno ho sentito dire un prossimo papà: “Mio figlio non nascerà lì, perché non voglio che abbia San Fermo sulla carta d’identità…”. Non parliamo poi della cittadella sanitaria con gli ambulatori che resta in via Napoleona: che spreco di risorse. A chi ha vissuto una vita in ospedale spiace vedere che i comaschi pagheranno certi errori con disagi sulla propria pelle». Se dovesse dare un consiglio pratico… «Accelerare i tempi il più possibile e aprire la porta del nuovo ospedale facendo trovare tutto ben funzionante». Marco Guggiari

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