«Per evitare le tante tentazioni del villaggio olimpico prima della gara ci avevano rinchiuso in un convento» Ancora adesso riceve lettere di ammiratori che gli chiedono una foto con autografo e lui, volentieri, manda cartoline con la sua firma che gli sono rimaste dal periodo in cui era un corridore professionista. Richieste che arrivano soprattutto dall’estero, dalla Germania o dai Paesi dell’Est europeo. «Dall’Italia? Una percentuale dell’1%». Giacomo Fornoni, classe 1939, originario della Val Seriana, sul Lario da quando aveva 14 anni, ha ancora tanti ammiratori. Persone che ricordano o hanno letto del suo exploit alle Olimpiadi di Roma 1960, quando vinse la medaglia d’oro nel ciclismo, esattamente nella “100 chilometri a squadre”, assieme a Livio Trapè, Antonio Bailetti e Ottavio Cogliati (quest’ultimo è scomparso nel 2008). Fornoni, Trapè e Bailetti la settimana prossima, il 10 settembre, saranno ricevuti al Quirinale dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Un evento in occasione dei 50 anni dai Giochi nella Capitale a cui sono state invitate tutte le medaglie d’oro di quell’edizione. L’ex corridore ovviamente non mancherà e prima di partire per la Capitale apre il suo album dei ricordi su un successo che ha segnato la sua vita. «Ho iniziato a correre nel 1956 – dice Giacomo Fornoni – nelle gare in linea. E pochi anni dopo, nel 1960, sono riuscito a superare le selezioni per partecipare alla “100 chilometri” alle Olimpiadi». La gara vinta dagli azzurri fu peraltro la prima che assegnò un oro nell’evento romano. A quella competizione l’atleta lariano arrivò con una grande carica. «Io per vincere dovevo essere “incazzato” (il termine usato è proprio questo, ndr) – spiega – e fecero di tutto per farmi arrivare così alla gara. Per evitare le tentazioni del villaggio olimpico io e gli altri ciclisti fummo mandati in ritiro in un convento di suore. Al mattino della corsa litigai con loro perché non ero soddisfatto rispetto a quello che mi avevano dato a colazione». «Ero così arrabbiato – aggiunge – che mentre gli altri raggiunsero il via della gara in pullman, io andai direttamente in bici. E pensare che nei quattro giorni prima della corsa non mi ero nemmeno allenato: mi avevano suggerito che sarebbe stato meglio riposare». E qui scatta un aneddoto simpatico: «Io la notte non avevo mai sonno – dice – mentre gli altri tre andavano sempre a letto presto. Il commissario tecnico Elio Rimedio lo sapeva e quando la sera andava a Roma mi portava sempre con sé. Ebbi così modo di conoscere la vita notturna della Capitale». Il percorso della “100 chilometri a squadre” era un anello di 25 chilometri con partenza e arrivo a Ostia da ripetere per quattro volte. «Un tracciato difficile – ricorda Fornoni – Oltretutto non fummo facilitati dal fatto che Bailetti andò subito in crisi perché sentiva molto la gara, era davvero emozionato, ma tutto andò per il meglio e alla fine festeggiammo la conquista della medaglia d’oro». Per la cronaca la squadra azzurra chiuse con il tempo di 2 ore 14’33’’53, precedendo la Germania Est di oltre 2’ e l’Unione Sovietica di 4’. Una vittoria che, come detto, al di là delle celebrazioni ufficiali viene ricordata anche dagli appassionati. «Praticamente ogni giorno – dice Fornoni – ricevo lettere di tifosi che mi chiedono un autografo con dedica. Cosa che ovviamente mi fa molto piacere. Io rispondo a tutti e mando le mie foto d’epoca, visto che me ne sono rimaste». Il successo ha segnato tutta la vita di Fornoni, che gestisce un ristorante a Rogeno che, non per caso, ha chiamato “Cinque cerchi”. E all’interno ha tutti i ricordi di quell’oro, a partire dalla medaglia, con i diplomi e le lettere di complimenti, tra cui quella del re d’Italia Umberto che gli scrisse dall’esilio in Portogallo. E non può mancare anche la maglia che quel giorno gli fu consegnata sul podio. Una carriera non troppo lunga, quella di Fornoni, che a 28 anni decise di smettere di correre. A chi lo va a trovare a Rogeno lui mostra due immagini simbolo: la prima, di una freddissima tappa di montagna di un Giro d’Italia degli anni ’60, quando con altri corridori si fermò per la bassa temperatura e si scaldò accendendo un fuoco. «Il patron Vincenzo Torriani si arrabbiò – spiega l’ex corridore – ma noi stavamo male: poteva dire ciò che voleva, ma la scelta di fermarci e scaldarci fu decisamente giustificata. Non me ne sono mai pentito». Nella sua bacheca c’è poi una vignetta che gli dedicò il quotidiano sportivo francese “L’Equipe” e che lo ritrae mentre, vestito da corridore, guarda in tv l’arrivo di una tappa del Tour. «Quel giorno ero in gara – spiega – e stava per vincere il mio compagno di squadra Gianni Motta. Mi fermai così in un bar per vederlo arrivare. I francesi furono colpiti da questa cosa, ma per me era normale. Ne ho fatte tante…». Massimo Moscardi
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