Maria Meroni: «Vi racconto com’era davvero mio fratello Luigi»

Maria Meroni traccia il profilo di Gigi, primo comasco convocato per un Mondiale «Sì, è stata un’emozione vedere giocare Luigino in Nazionale ai Mondiali del 1966. Mio fratello Celestino, gli amici e io eravamo tutti qui in casa davanti alla tv». Maria Meroni, sorella di Gigi, talento comasco del calcio italiano, morto nel fiore degli anni, investito in un incidente stradale avvenuto a Torino nel 1967, accetta di tracciare un ritratto personale del fratello. Lo fa rompendo il riserbo che si è imposta dopo che troppi si sono impossessati della breve vita di Meroni, scegliendo ciò che faceva loro comodo. L’incontro avviene nel bell’appartamento di Como che fu acquistato da Gigi per la mamma e per la famiglia nel 1965 e dove adesso Maria abita con il marito, sposato nel 1977. Alle pareti quadri dipinti proprio dal calciatore, che aveva anche estro e passione per la pittura. L’occasione del colloquio è il campionato del mondo in Sudafrica, la competizione a cui partecipa la squadra azzurra nella quale milita il comasco Gianluca Zambrotta, uno dei lariani arrivati in Nazionale, come Claudio Gentile e Pietro Vierchowod. Ma il primo nel dopoguerra ad essere convocato per la fase finale di un Mondiale, quello d’Inghilterra del ’66, fu proprio lui: Gigi Meroni, classe 1943. L’Italia vi era giunta in grande spolvero. Aveva vinto le quattro amichevoli che precedevano la competizione, tanto da essere considerata la compagine più in forma del momento. Tra le 16 ammesse alla fase finale, finì nel gruppo assieme a Urss, Cile e Corea del Nord. Fu però clamorosamente eliminata dopo la sconfitta con i coreani (1-0), in quella che è stata a lungo considerata una vergogna nazionale. Gigi Meroni non disputò la prima partita, vinta (2-0) contro il Cile, e nemmeno il match della disfatta. Era invece in campo il 16 luglio nella sfida persa (1-0) con l’Urss. Al ritorno in Italia la contestazione e il lancio di pomodori contro la Nazionale furono pesanti e proprio Meroni, nonostante fosse il meno colpevole, fu uno dei bersagli preferiti. Non venivano accettati i suoi capelli lunghi, la sua eccentricità, il suo modo di essere libero e affrancato dai conformismi. «Avevamo gente che urlava anche qui, sotto casa – conferma Maria Meroni – Ma vivevamo quel momento con un certo distacco. La nostra è una famiglia particolare: siamo sempre stati molto uniti, nelle cose belle e nel dolore». Nella sua breve carriera in Nazionale, Meroni collezionò in tutto sei presenze, segnando due gol. Il fenomeno comasco cresciuto sul campetto dell’oratorio di San Bartolomeo, ad onta delle sue doti aveva incontrato fin dall’inizio l’opposizione dell’allora commissario tecnico Edmondo Fabbri, che gli imponeva di tagliare la zazzera. «Luigino non voleva cedere – ricorda Maria – Chiedeva di essere giudicato soltanto come calciatore. Alla fine fu convocato a furor di popolo, ma partì per l’Inghilterra sapendo che non avrebbe giocato. Telefonò a nostro fratello Celestino consigliandolo di non affrontare il viaggio fin lì perché, in ogni caso, lui non sarebbe stato tra i titolari». Dopo la disfatta, Fabbri ammise a denti stretti: “Con lui in campo, contro la Corea avremmo vinto”. Difficile non immaginare un clima di grande attesa per l’evento dei Mondiali, l’allora Coppa Rimet. «Luigino era sempre tranquillo – obietta però la sorella – e lo era stato anche quando la mamma gli aveva strappato il cartellino». Meroni allora aveva solo 15 anni; era richiesto dall’Inter, ma la mamma non volle saperne di due allenamenti alla settimana a Rogoredo. La sorte concesse poi a Gigi di appagare per breve tempo i suoi desideri, prima nel Como, poi nel Genoa e nel Torino. Ma chi era quel giovane a cui è stata rubata la vita per una fatalità la sera di domenica 15 ottobre 1967, lungo corso Umberto a Torino? «Era una persona molto rispettosa verso gli altri e chiedeva altrettanto per sè. Era straordinariamente generoso. Dopo la sua morte ho saputo che pagava lui l’affitto di casa a persone povere e anziane. Era anche estremamente affettuoso». La famiglia Meroni, prima del successo calcistico di Gigi, non era certo benestante. Il papà era morto quando i tre figli erano in tenerissima età: Celestino aveva 6 anni, Gigi non ancora 3 e Maria appena 40 giorni. Mamma Rosa si rimboccò le maniche e seppe crescere con grande dignità i tre bambini. Dopo Gigi, nel 2001 se n’è andato anche Celestino, stroncato dalla Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, o sindrome di Gehrig, di cui si è celebrata proprio ieri la Giornata Mondiale di sensibilizzazione. La sofferenza e il lutto sono dunque due costanti di questa famiglia, ma Maria tiene a raccontarla completamente per come essa è stata: «Ho avuto una famiglia straordinaria. Ho vissuto momenti davvero belli, anche se li ho pagati tutti e a caro prezzo. Tra noi eravamo speciali, forse per non aver avuto il papà. E per la mamma questa è stata una grande consolazione. Diceva: “Ho avuto tanti dispiaceri, ma non quello di vedere litigare i miei figli”». I ricordi si affollano e vanno a ritroso nel tempo, sino all’infanzia. «Luigino e io incidevamo delle tacche sul camino della casa di via Milano per segnare la nostra altezza. Lui non cresceva ed era gracilino. Quando poteva, la mamma lo spediva in montagna. Io invece ero piuttosto paffuta. Per questo lui mi ha sempre chiamato “Ciccia”». L’affetto di Gigi Meroni verso i familiari è testimoniato anche da alcuni episodi che la sorella rammenta e che danno il senso di una genuina semplicità ormai d’altri tempi. «Quando cominciò a guadagnare bene, una sera Luigino fece aprire il negozio d’abbigliamento “Aurora” di via Milano per regalare a Celestino alcuni maglioni. Alla mamma donò una lucidatrice. A me un braccialetto d’oro. Un’altra sera che tornavamo assieme da Torino, si accorse che io compivo gli anni e se n’era dimenticato. Volle fermarsi in un autogrill per regalarmi una bambolina. “Poi – mi disse – ti prenderò una 500”. Era attratto dalle auto e le cambiava spesso. La mamma era terrorizzata che spendesse troppo. Così, lui le diceva che aveva avuto un guasto. Aveva un’incredibile dolcezza con la mamma. Sapeva prenderla per il verso giusto. Era il suo cocco e otteneva sempre tutto». Rivivere quella sera dell’ottobre ’67 è sempre straziante. «Io sono riservata – dice Maria – Per me è un peso ripercorrere le vicende di Luigino e di Celestino… Quella sera eravamo in casa a vedere la tv, la mamma, Celestino e io. Suonò il citofono. Aprì la mamma; erano i giornalisti. Le dissero che cercavano Celestino… Ho sempre apprezzato la delicatezza di Enzo Tortora, allora conduttore della “Domenica Sportiva”, che rifiutò di comunicare in tv cos’era successo temendo che noi familiari ancora non sapessimo. Pensi: una sera che eravamo in auto assieme e Luigino, come suo solito, correva, gli chiesi di rallentare. Mi guardò e disse: “Piuttosto che restare vivo in qualche modo…”». Marco Guggiari