In guerra per cinque anni. «Mi salvò una tedesca»

L’alpino Pietro Bianchi racconta la sua avventura a lieto fine La storia dei suoi cinque anni di guerra è un romanzo a lieto fine, un drammatico film su immagini ad alta definizione, che Pietro Bianchi, detto “Rino”, proietta forte di una memoria incredibilmente nitida. Novant’anni, sposato e padre di due figli, una vita nella sua ditta di trasporti, ha combattuto su più fronti il secondo conflitto mondiale in divisa da alpino della Tridentina: Francia, Albania, Russia e, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, deportazione e prigionia in Germania . Più che un’intervista, la chiacchierata con lui nella sua casa di Villa Guardia è il fiume in piena di un racconto asciutto, senza retorica, interrotto solo dall’illustrazione di mappe e documenti d’epoca. «Eravamo di ferro, altrimenti non ce l’avremmo fatta a tornare», è l’unica considerazione a latere. Chiamato al servizio di leva l’8 marzo 1940, da Bergamo – dove dovette presentarsi – fu destinato a Merano. Nel mese di maggio avvenne la partenza per Ivrea, in Piemonte, e da lì a Fiorano Canavese. «Non c’era caserma – spiega – Dormivamo su pagliericci nelle case e cominciavano a dirci che bisognava presidiare la Francia». Il 10 giugno di quell’anno l’Italia di Mussolini fece il suo ingresso in guerra e Pietro Bianchi, artigliere di montagna, partì a piedi da Fiorano alla volta di Courmayeur e da lì in Val Veny, poi sul Colle della Seigne. «Trasportavamo con i muli un obice di quelli presi agli austriaci nella guerra ’15-18. Un alpino del mio paese che tornava indietro dal fronte mi urlò in dialetto: “Non andare su che ti ammazzano!”. I muli non ce la facevano più e toccò a noi uomini trasportare a spalle l’obice. Facevamo pochi metri e poi ci davamo il cambio». Qui “Rino” apre la camicia e mostra una strana sporgenza dello sterno, “ricordo” imperituro di una caduta sotto il peso dell’obice. «Lassù – ricorda – avemmo i primi morti congelati». La dichiarazione di guerra aveva colto di sorpresa i giovani in grigioverde. «Avevo diciannove anni – dice l’alpino di un tempo – e avevamo fatto i tiri soltanto tre volte». Quindici giorni dopo il primo impatto con i cannoni e le mitragliatrici, avvenne il trasferimento, sempre a piedi, a Varallo Sesia. La canzone in voga era “C’eravamo tanto amati” e la voglia di ballare con le ragazze era tanta. Da Varallo il passaggio a Ivrea, in seguito a Merano per un paio di mesi. Ma ecco prospettarsi la partenza per l’Albania (8 ottobre 1940), il viaggio a Mesagne in Puglia, la nave da Brindisi, l’arrivo a Durazzo e la marcia verso il Monte Tomori. «Vedevamo fanti e camicie nere tornare malconci – rammenta ancora Pietro Bianchi – Guadammo il fiume Devoli con i muli. Era la stagione delle piogge. C’era fango dappertutto, qualcosa di inimmaginabile. Per dormire dovevamo tenere le tende sollevate con tronchi d’albero e paglia. Capitava che i muli sprofondassero fino alla pancia. Alcuni erano irrecuperabili e dovevamo ucciderli. Fummo funestati da una drammatica forma di dissenteria. Percorremmo il crinale per passare al fronte sotto il tiro dei cecchini albanesi e subimmo le prime perdite». Quando, dopo la battaglia sul Tomoli, vi fu il rientro il Italia, “Rino” ricorda Bari e il cinema Petruzzelli. «Andammo a vedere “Luciano Serra Pilota” con Amedeo Nazzari. In sala scoppiò una rissa perché la gente del posto ci chiamò “pidocchiosi”. Sì, avevamo anche i pidocchi». La guerra non lasciava certo lunghe pause di distrazione. A breve vi fu la nuova partenza verso Mezzocorona (Trento) e, da lì, a Cles in Val di Non, poi a Smarano. «Finalmente, dopo un anno e mezzo, ottenni una licenza: dieci giorni più due di viaggio. In Trentino stavamo bene. Ci rifocillammo, ma subito ci fu detto che dovevamo andare in Jugoslavia e partimmo per Monfalcone, dove giunse il contrordine: dovevamo tenerci pronti per la campagna di Russia». Bianchi descrive l’equipaggiamento, davvero essenziale: mantella, scarponi che lasciavano impressa sui piedi la corona dei chiodi e fasce grigioverdi. Prima di affrontare la Russia ci fu il trasferimento a Venaria Reale (Torino) e, da lì, vicino a Druento. Ed ecco un curioso aneddoto. «A Druento c’era il bar di una vecchietta con la gobba. La figlia faceva predizioni: “Tu tornerai dalla Russia, tu non tornerai…”. Io chiesi il mio responso e lei mi disse sottovoce di toccare la gobba della mamma, senza che se ne accorgesse. Lo feci con il trucco di un fazzoletto lasciato cadere apposta per terra. Mentre mi rialzavo toccai la gobba della donna. La figlia mi disse: “Vedrai che tu torni” e io me ne andai tranquillo…». Ed ecco il viaggio dei viaggi, quello da cui tanti non hanno mai più fatto ritorno. Da Torino verso la Russia (luglio 1942-marzo 1943), con cambio di tradotta a Vienna. A Gomel (Bielorussia) il treno fu assalito dai cosacchi e avvenne una furiosa sparatoria. «Poi avanti fino a Podgornoje, dove dovevamo passare il Don – prosegue il lungo racconto – ma si diceva che i tedeschi, per fuggire, avessero mandato avanti noi. Iniziammo allora la ritirata. La temperatura era di 45 gradi sottozero. Di notte l’alito e la barba si congelavano. Non cambiavamo la nostra divisa da quattro mesi. Qualcuno diceva: “La migliore gioventù va sottoterra”». Pare di rivivere sul campo la rievocazione di quella terribile ritirata attraverso le parole del sopravvissuto. «Fu una tragedia. Eravamo accerchiati su tutti i lati. Noi della Tridentina spingevamo per uscire dalla sacca in cui eravamo stati cacciati (“Rino” apre un libro, preziosissimo e sfasciato, e mostra la fotografia del comandante che quasi settant’anni fa, accanto a lui incitava “Tridentina avanti!”, ndr.). A Nicolajewka fui buttato nella mischia del combattimento perché non ero tra i feriti. Vidi morire due fratelli, uno dopo l’altro. Fu una carneficina». Tornati a Gomel, avvenne la disinfezione sui corpi nudi dei soldati, con pennellate di calce e poi getti d’acqua fredda. Inevitabili, in quelle condizioni, molte polmoniti. Si cercava di scongiurare una grande epidemia di tifo petecchiale. Il ritorno a Udine, per chi ce la fece, coincise con la quarantena e con una nuova licenza di otto giorni più due di viaggio. Ma ecco un altro drammatico capitolo. Al momento dell’armistizio, mentre gli alpini si trovavano a Brunico e a San Candido, furono circondati dai tedeschi armati fino ai denti. Due tentativi di fuga, uno dei quali attraverso le fogne, andati a vuoto, furono seguiti dalla partenza verso la Germania su vagoni piombati: lavori forzati, prima a Kustrin, e poi – oltre l’Oder – nei pressi di Oderberg, in una fabbrica chimica in mezzo ai boschi. Straziante e “miracoloso” un episodio di quella’esperienza. «Ero tra gli addetti alla centrifuga. Una giovane tedesca controllava. Avevo fame e glielo dissi. Mi portò un panino con lo speck, che nascosi sotto la camicia. Mentre mi avviavo verso il gabinetto per poterlo mangiare, un “capetto” mi aprì la camicia, lo prese, lo gettò a terra e lo schiacciò con le scarpe. Io lo afferrai per il collo e cominciai a stringere, l’avrei ucciso. Un mio compagno di prigionia russo me lo strappò letteralmente dalle mani. Feci in tempo ad avvisare quella giovane che aveva dimostrato umanità. Disse che avrebbe cercato di aiutarmi. Fui chiamato per la punizione con due soldati che mi spingevano dandomi colpi alla schiena con il calcio del fucile. Un militare mi chiese: “Tua mamma è tedesca?”. Pensai che quella giovane tentava di aiutarmi così… Risposi di sì e fu la mia salvezza». L’ultima parte del racconto è il rocambolesco viaggio di ritorno verso casa dopo che la Germania cadde nelle mani degli alleati: il furto di un carro con cavallo e un telone, le requisizioni, l’arrivo infine a Pescantina (Verona) e a Como San Giovanni. Era il settembre 1945. «Abbiamo fatto la guerra per amor patrio. Dallo Stato italiano non ho mai avuto una lira. Oggi è consolante parlare con i ragazzi di terza media, come mi è capitato di recente, e sentirmi rivolgere tante domande interessanti». Marco Guggiari